Attivismo

Servizio civile all’estero, una lezione di pace per il mondo in guerra

Chi è rientrato non racconta ciò che ha dato ma ciò che ha ricevuto: «Oggi i miei occhi vedono il mondo in modo diverso». Chi sta per tornare, sa che si porterà a casa «una nuova consapevolezza sul mondo». Così i ragazzi diventano “ponti” per la pace

di Chiara Ludovisi

«Nel contesto internazionale di grande instabilità che stiamo attraversando, il Servizio civile all’estero è un’azione strategica per la costruzione di un domani di pace. I giovani che vivono questa esperienza si educano alla pazienza e al confronto. E tornano con la visione di un mondo senza muri, pronti a costruire ponti». Lucia De Smaele in questi giorni è impegnata, per Focsiv, nella formazione dei ragazzi e delle ragazze che tra poco partiranno per il Servizio civile all’estero. Altri stanno per tornare, dopo aver vissuto dai 10 ai 12 mesi in contesti lontani e diversi, incontrando comunità, tradizioni, culture che li hanno accolti e contaminati. 

Il racconto di chi è tornato

Matteo, Benedetta e Mariagrazia hanno vissuto questa esperienza chi più chi meno recentemente. «È stato un anno di realismo magico, che mi ha dato veramente tanto – assicura Matteo Maritano oggi ha 33 anni e vive a Torino, ma è nato e cresciuto tra le montagne della val di Susa. Attualmente si occupa di progettazione sociale per il CSV di Torino, ma continua a lavorare anche in ambito educativo. «L’esperienza a Quito ha lasciato il segno», afferma. A Quito, capitale dell’Ecuador, Matteo ha vissuto quasi un anno, tra il 2017 e il 2018, come civilista di Engim. «Lavoravo in un centro educativo rivolto a bambini e bambine di etnia indigena». Per superare l’impatto con una tradizione così diversa, il trucco è «osservare, specialmente all’inizio: andare oltre la diffidenza e le rigidità con cui possiamo essere guardati i primi tempi. Vivere da giovani tanti mesi al di fuori della propria zona di confort, dall’altra parte del mondo, è un’occasione unica, soprattutto in questi tempi bui delle relazioni internazionali: un’opportunità preziosa per noi ragazzi. La mobilità dei giovani favorisce la solidarietà, la cooperazione, la vicinanza. Sono sicuro che sia un modo per tornare a casa propria più attenti e sensibili, perché si è avuta l’occasione di sperimentarsi in un altrove. Chi ha avuto il privilegio di andare fisicamente in quei luoghi è più attrezzato per fare da ponte anche rispetto a persone che rappresentano una diversità. Ecco cosa possiamo e dobbiamo essere, noi che rientriamo da questa esperienza: costruttori di ponti per tutta la vita».

Benedetta in Tanzania

Ponti che avvicinano ciò che è lontano, riducendo distanze che sembravano incolmabili: è l’esperienza vissuta anche da Benedetta, che ha svolto, ormai 10 anni fa, il proprio servizio in Kenya con Auci, nell’ambito di un progetto per la prevenzione del cancro alla cervice. «Noi europei siamo abituati a standard che non esistono in questi paesi: l’ospedale completamente diverso, le procedure, le mancanze, ti fanno sentire impotente. Non è stato facile entrare in contatto con una realtà del genere, ho avuto la sensazione di essere masticata, sputata, per poi rinascere diversa, con dei nuovi orizzonti: con gli stessi occhi, ma che vedono in modo diverso, senza pregiudizi, senza chiusure, senza resistere al cambiamento. Oggi mi sento capace di farmi modellare dalla diversità che incontro».

Imparare a incontrare e gestire ciò che è diverso è una delle ricchezze che anche Mariagrazia si è portata a casa dal suo anno civile in Tanzania con Cope. «In particolare, ho pian piano fatto mio il ritmo di vita e di lavoro della popolazione africana, che inizialmente trovavo esasperante. Oggi, grazie a quell’esperienza, insieme ad alcuni amici cerco di aiutare i giovani africani a imparare l’italiano, con un metodo che sia più efficace con loro. Ho superato la resistenza e il pregiudizio di fronte alla diversità. Non so ancora quale sarà la mia strada, non ho trovato la mia collocazione, ma sicuramente il servizio civile ha fatto nascere in me l’esigenza di lavorare in un contesto in cui le relazioni umane siano centrali». Oggi Mariagrazia è ancora in contatto con i 19 bambini del centro di accoglienza con i quali ha trascorso tanto tempo: «Quando ci sentiamo li sento gridare “Maria, torta!” perché io li viziavo preparando spesso una torta per loro. Bastava quello per renderli felici. I loro sorrisi e i loro abbracci mi sono stati di enorme aiuto nei momenti difficili e ancora oggi mi mancano tantissimo». 

Progetto Quito, foto Engim4

La voce di chi sta per tornare

«Faccio fatica ad immaginare il mio rientro. Ho ancora le idee un po’ confuse sul futuro e su quello che farò, ma porto a casa tante nuove consapevolezze su me stessa e sul mondo intorno a me»: Anastasia rientrerà in Italia questo mese, dopo 10 mesi vissuti a Iringa, in Tanzania, per il suo servizio civile con l’associazione L’Africa chiama, nell’ambito di diversi progetti per la disabilità e la malnutrizione. «Non avere la pretesa di controllare tutto: ecco cosa ho imparato, piano piano. Nel tempo lento e imprevedibile della Tanzania, ho imparato l’arte del “lasciar andare” quel controllo che siamo abituati ad avere sulle cose, sui pensieri, sul futuro. E che la maggior parte delle volte ci carica, inutilmente, di ansia. Qui la comunità vive molto nel presente: è una cosa che si coglie fin da subito subito e che pian piano è diventata anche mia».

Lasciar andare pregiudizi e giudizi, per abbandonarsi al ritmo e alle regole di una cultura inizialmente inconcepibile: è quello che si porterà a casa anche Chiara, che sta concludendo in questi giorni il suo servizio civile in Kenya, anche lei con L’Africa Chiama: «Vivo e lavoro, soprattutto con bambini in condizione di grande vulnerabilità. in un’area ai confini della contea di Nairobi, a Kahawa West, proprio di fronte a un insediamento informale, più comunemente noto come slum. Nei primi mesi ho faticato a trovare un punto di incontro con alcune colleghe e colleghi, mi sembrava che parlassimo due lingue diverse, non solo in senso letterale: differenze nei valori, nella percezione della giustizia, nelle priorità, nell’organizzazione del lavoro. Una delle sfide più complesse è stata proprio quella di imparare a fare un passo indietro: mi sono resa conto col tempo che la mia visione e il mio modo di risolvere i problemi in quel contesto non erano efficaci e talvolta avrebbero potuto rivelarsi controproducenti. È stato e continua ad essere un processo di adattamento continuo, che non ha una fine vera e propria, ma che col tempo mi ha insegnato a guardare più in profondità. Posso dire di aver imparato ad avere torto».

Mariagrazia in Tanzania

Dal Servizio civile alla testimonianza di pace

 Imparare ad avere torto e a fare un passo indietro: sono qualità e capacità fondamentali per costruire un mondo di pace, così lontano – pare – da quello che abbiamo sotto gli occhi in questi mesi. E sono queste qualità che si cercano, nei tanti candidati che ogni anno presentano la domanda per i progetti di servizio civile all’estero. «Incontriamo candidati con profili personali e professionali molto alti, ma anche ragazzi giovani con un profilo ancora da costruire – riferisce Fioralba Hoxha, che seleziona, forma e accompagna i volontari per L’Africa Chiama – Ciò che davvero importa, però, è che tutte le persone selezionate portano con sé una spinta autentica verso l’impegno e il cambiamento di un mondo che, oggi, non mette più al centro i diritti e il benessere della persona, ma si lascia devastare da disuguaglianze, ingiustizie e guerre. Cerchiamo nei ragazzi e nelle ragazze una forte motivazione personale, il desiderio di essere cittadine e cittadini attivi, portatori di valori universali da spendere sia in contesti vulnerabili, sia una volta rientrati in Italia».

A chi sta per partire – gli avvii, sia in Italia che all’estero, avvengono proprio in questi giorni – Hoxha consiglia di «andare con la mente aperta, pronti a mettervi in discussione, ad ascoltare e a comprendere prima di agire. Bisogna essere spugne: assorbire il più possibile e restituirlo, poi, sotto tante forme di cittadinanza attiva al rientro. La chiave è la curiosità e il rispetto profondo del contesto in cui si andrà a operare».

A chi sta per rientrare, invece, De Smaele raccomanda «di darsi del tempo per elaborare e sedimentare l’esperienza vissuta, per darle pienamente senso e metterla al servizio degli altri. Spesso i ragazzi, condizionati da noi adulti, hanno l’ansia di dover essere sempre in movimento, come se prendersi una pausa tra un’esperienza e l’altra fosse tempo perso. Invece è importante darsi il tempo di analizzare un’esperienza così forte, coglierne il senso. Perciò dico a questi ragazzi: fermatevi, prendete fiato e poi raccontate, testimoniate e condividete quello che avete vissuto con le persone che vi aspettano e che vi vedranno tornare cambiati. Non sarà facile farsi ascoltare e comprendere, vi servirà pazienza: ma alla fine la vostra testimonianza arriverà e servirà per costruire un mondo migliore di quello che vediamo oggi». In cui la pace non sia un’utopia e non si possa più dire “Siamo in guerra”.

In apertura: Mariagrazia in Tanzania

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