Idee Change maker

Filantropia trasformativa contro filantropia estrattiva

La filantropia trasformativa ha bisogno di tempi lunghi, di pazienza strategica. È un lavoro invisibile, spesso silenzioso, dove il “non fare” è parte dell’azione: come quando si sceglie di non imporre un progetto o le proprie metriche, ma di ascoltare i territori e le comunità

di Federico Mento

Durante il periodo del Covid- sembra davvero un tempo “altro” quasi di finzione – con mia moglie e un piccolo gruppo di vicini iniziammo a prenderci cura di un’area verde a poche centinaia di metri da casa. Ci spingeva, da un lato, la necessità di riprendere contatto con la natura, dopo i tanti mesi trascorsi in quarantena, dall’altro il desiderio di fare comunità. La mia esperienza con il giardinaggio risaliva ai tempi dell’infanzia e al di là dello sfalcio dell’erba, non avevo molte competenze da offrire. Decisi così di autoformarmi, e mi capitò di imbattermi nel libro “Agricoltura sinergica. Le origini, l’esperienza, la pratica” di Emilia Hazelip. Hazelip è stata una pioniera dell’agricoltura sinergica, negli anni ‘60, durante un lungo soggiorno negli Stati Uniti, era entrata in contatto con il lavoro di Ruth Stout, che da tempo aveva sperimentato nella coltivazione l’efficacia della pacciamatura e del non intervento sul suolo.

Alla fine degli anni 70, Hazelip lesse “La rivoluzione del filo di paglia” di Masanobu Fukuoka, e provò ad adattare il pensiero del botanico giapponese al clima mediterraneo. In una visione più articolata e profonda dell’agricoltura che desiderava condividere, Hazelip abbracciava la permacultura come un modello di progettazione sostenibile in cui ogni risorsa sia davvero valorizzata, senza essere scartata. In questo approccio, si fa uso esclusivo di energie rinnovabili, le acque reflue vengono depurate con l’aiuto delle piante e riutilizzate, e anche gli scarti organici — compresi i materiali di origine animale e umana — possono essere trasformati in energia, come il biogas. Non esistono scarti: tutto si reinserisce nei cicli naturali, decomposto e rigenerato in humus. Prendersi cura del suolo, per Emilia, aveva una dimensione etica imprescindibile, l’agricoltura sinergica come strategia dal basso per salvare il pianeta. Per lei, la permacultura rappresentava qualcosa di profondamente innovativo: un processo che, nel momento stesso in cui si realizza sul campo, insegna a pensare in modo sistemico e a cogliere le connessioni tra le cose. Questa consapevolezza dell’intersezionalità che permea il vivente, genera, secondo lei, le condizioni per una collaborazione armoniosa tra le due parti del cervello, permettendoci di vivere pienamente il nostro presente. Tornando per un momento a quel periodo, ricordo una profonda sensazione di benessere nell’applicare i principi dell’agricoltura sinergica a quel piccolo frammento dolente di città, e vedere come il suolo coperto mantenesse l’umidità nella calda estate romana, al ruolo fondamentale dei lombrichi che iniziavano a spuntare qua e la, a come una terra dura, povera e compatta potesse riprendere vita, senza bisogno di zappatura e apporti chimici.

Ora, cosa c’entra l’agricoltura sinergica con filantropia? Per rispondere alla domanda, riprendo un recente contributo di Carola Carazzone (segretaria generale di Assifero e vicepresidente di Philea), nel quale l’autrice auspicava il superamento del concetto di “infrastruttura invisibile” associato al ruolo degli attori della filantropia, che tanto abbiamo letto e ascoltato, quasi fosse una litania. Secondo Carazzone, l’infrastruttura è statica, non generativa, mentre dovremmo esercitarci a pensare all’azione filantropica come un atto generativo, associato appunto alla pratica della permacultura.

Pensiamo all’agricoltura industriale che, come certa filantropia tradizionale, punta alla massimizzazione del raccolto, spesso attraverso interventi intensivi e verticali. Un’azione filantropica “estrattiva” agisce allo stesso modo: entra in un contesto, porta risorse, impone i suoi tempi, magari genera un impatto, ma spesso non ascolta né il terreno né le comunità. L’agricoltura sinergica, al contrario, rigenera il suolo. Non forza la crescita, ma crea le condizioni affinché la vita possa prosperare. Allo stesso modo, una filantropia rigenerativa investe nel capitale relazionale, nelle capacità locali, nei tempi lenti della fiducia.

In agricoltura sinergica, il suolo non è un substrato inerte, ma un ecosistema vivo. Le radici delle piante dialogano con i microrganismi, e ogni elemento ha una funzione. La filantropia che si ispira a questa visione vede le comunità non come contenitori di bisogni diffusi, ma come territori ricchi di potenzialità. Non si tratta, quindi, di “portare soluzioni”, che possono pur aver funzionato altrove, ma di accompagnare, con cura e pazienza, processi. Di fertilizzare le energie già presenti, proteggere la biodiversità sociale, valorizzare saperi informali. Come in un orto sinergico, ogni attore – ente, donatore, beneficiario – ha un ruolo nel mantenere il sistema in equilibrio. Chi coltiva in modo sinergico sa che ci sono momenti in cui bisogna aspettare. Non si può forzare la germinazione, né anticipare il raccolto. La filantropia trasformativa, similmente, ha bisogno di tempi lunghi, di pazienza strategica. È un lavoro invisibile, spesso silenzioso, dove il “non fare” è parte dell’azione: come quando si sceglie di non imporre un progetto o le proprie metriche, ma di ascoltare. Nei sistemi sinergici, la diversità garantisce la resilienza. Una monocultura può essere distrutta da un solo parassita; un sistema complesso, invece, è adattivo e quindi più resiliente.

Un filantropia sinergica ci propone un nuovo paradigma: da una logica lineare di obiettivi da raggiungere e impatti misurabili a una logica di cura, ascolto e co-evoluzione

Anche la filantropia dovrebbe evitare di puntare su pochi “progetti bandiera”, per favorire, al pari delle consociazioni dell’orto sinergico, un tessuto diffuso di iniziative e organizzazioni tra loro interconnesse. Un filantropia sinergica ci propone un nuovo paradigma: da una logica lineare di obiettivi da raggiungere e impatti misurabili a una logica di cura, ascolto e co-evoluzione.Una filantropia che si sporca le mani, comprende le sfide sistemiche, utilizza le lenti dell’intersezionalità, e accetta la complessità. Ma soprattutto, significa abbandonare la tentazione di “salvare” per accogliere un compito più umile – ma più rivoluzionario – coltivare il cambiamento.

Foto: Pexels

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