Adolescenti, basta etichette
Quartieri Spagnoli, così gli adolescenti hanno chiesto il ritorno del padre
Giovedì 19 giugno presentiamo il numero di VITA “Adolescenti, quello che non vediamo”, nella sede di Foqus (via Portacarrese a Montecalvario, 69) a Napoli. Alberto Caronte, responsabile dei progetti di Foqus, racconterà il lavoro fatto nell'ultimo anno dai ragazzi e dalla ragazze della scuola secondaria di primo grado, che ha portato alla realizzazione dello spettacolo teatrale “L’ultimo giro - chi siamo alla fine del mondo” che rimette al centro i loro bisogni. Il primo? Il ritorno dei padri
di Anna Spena

“Telemacoooooooo, Telemacoooooooo, Telemacoooooooo”. I Quartieri Spagnoli di Napoli si riempiono delle voci dei giovani. Sono gli alunni e le alunne della scuola secondaria di primo grado Dalla Parte dei Bambini, che si trova all’interno della sede della Fondazione Foqus. Quando all’inizio dell’anno scolastico gli è stato chiesto: “Cosa non capiamo di voi, di cosa avete bisogno?”, loro hanno risposto: “Vogliamo il ritorno dei padri”. È nato così lo spettacolo – interamente scritto da loro – L’ultimo giro – chi siamo alla fine del mondo.

I Quartieri Spagnoli di Napoli sono un reticolo di vicoli abitato da 30mila persone. Il 34% dei ragazzini tra gli 8 e i 14 anni abbandona la scuola. «Non esistono spazi neutri qui», aveva raccontato Rachele Furfaro, presidente di Fondazione Foqus, «e se la scuola “espelle” questi ragazzi, se non “li sa trattenere”, se non riesce a creare affezione, allora li consegna all’industria dell’illegalità che li usa come mera forza lavoro».
“Emanuè o guaglione s’è perdut’!
Si è perso? Puveriell’… Aspè fallo scenner’, o vec’ tutt’ spaventat’, firm’ o mezz’ sott’ a casa mij, o tiemp che m’ mett’ o profum’ e cio’ purtamm’ a fa nu gir’ rint’ e quartier’”.
Sono entrati con i loro corpi nei vicoli dei quartieri, le loro stesse case sono diventate il palcoscenico e da qui hanno urlato.
Ma tu a chi si figlij?
Ha detto che sta cercando il padre
Eh… ma tu a chi si figlio?
Guagliù! Se sta cercando il padre diamogli una mano
Cercammolo!
Per me un padre mi deve riempire di baci
E chiaro no?
Non lo troveremo mai!

«Questi anni straordinariamente violenti hanno reso le nostre vite pericolose, e rubano il sonno a questi ragazzi e ragazze», scrive il regista dello spettacolo Umberto Salvato, che ha accompagnato i ragazzi durante tutto l’anno scolastico. «Andando indietro negli anni ci siamo resi conto che senza nessuna remora potevamo affermare che le generazioni precedenti a questa sono state caratterizzate da un rapporto padre-figlio frutto del contrasto. Figli che devono uccidere i padri come Edipo contro Laio. Uccidere per superare. Ma quello che ci interessava era mettere a fuoco il cambiamento che stiamo vivendo. Cos’è successo? Oggi chi è il padre? E chi il figlio? Esiste ancora un “regno” da ereditare? E questo regno, che noi chiamiamo mondo, che mondo è? I nuovi figli appaiono sperduti tanto quanto i loro genitori. Se volessimo fare il parallelismo epico, questa gioventù non più edipica sembra crescere sotto il segno di Telemaco, cui Omero fa dire nell’Odissea: “Se gli uomini potessero scegliere ogni cosa da soli, per prima cosa vorrei il ritorno del padre”. Il desiderio di Telemaco non è solo desiderio nostalgico che il padre ritorni, ma anche che si mostri Padre. Telemaco guarda il mare, scruta l’orizzonte, aspetta che la nave di Ulisse – che non ha mai conosciuto – ritorni per riportare la Legge nella sua isola, dominata dai Proci che gli hanno occupato la casa e che godono impunemente e senza ritegno delle sue proprietà».

Con il teatro «i ragazzi e le ragazze si sono potuti esprimere con un linguaggio diverso da quello tradizionale della scuola», spiega Alberto Caronte, responsabile dei progetti di Fondazione Foqus. «Facciamo quattro ore di teatro curricolari a settimana».
Alberto Caronte con i giovani dei quartieri vive fianco a fianco: «Chiedono solo di essere visti, chiedono che le loro potenzialità siano riconosciute. Lo spettacolo è stato tutto farina del loro sacco ed è servito a far riflettere davvero gli adulti di riferimento. Lo hanno scritto loro il testo, sono stati loro i protagonisti, sono partiti dalla loro identità. E noi sappiamo che poter essere visti nella propria identità, poiché l’identità è ciò che gli altri riconoscono nel sociale, è un processo di emancipazione, cioè di autostima, di crescita, di senso di ruolo nel quartiere. Non è solo il ragazzino che rischia di essere disperso in termini scolastici, ma anche un ragazzino che, attraverso uno spettacolo, racconta delle cose, delle sensazioni, delle emozioni, dei dolori». Questo lavoro è stata anche una scoperta: «la possibilità», continua Caronte, «che in un quartiere come questo i ragazzi parlino al quartiere e non che il quartiere o l’opinione pubblica guardi a questi ragazzi solo quando ci sono dei casi di cronaca drammatici che li coinvolgono. In questo caso, è venuta fuori una cosa profonda, non “bella” in senso estetico, ma molto profonda emotivamente».

Telemaco aspetta il padre e così i ragazzi del quartiere. «Sono padri in prigione, sono assenti, oppure non ci sono e basta», continua Caronte. «In questi territori, spesso le figure femminili svolgono sia il ruolo di padre che di madre, con tutta la complessità e il disagio che comporta educare un bambino con un accorpamento delle due funzioni». E infatti una parte del testo recita: “Cara mamma domani chissà forse davvero finisce il mondo, volevo ringraziarti per avervi fatto da mamma e da padre, e non avermi fatto sentire la mancanza di un padre e scusa se non ho saputo dirti grazie per il mio carattere complicato”. «Recitare in strada», dice Caronte, «viverla non come luogo di abbandono, ma come luogo di espressione, è stata una forza. I ragazzi e le ragazze hanno detto qualcosa al quartiere, hanno mandato un messaggio a chi lo abita. Un messaggio che ha toccato le corde dei genitori, dei parenti. Però questo non significa che si sia arrivati a un risultato definitivo, il risultato è un percorso lungo».

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