Idee Lavoro sociale
Il Terzo settore che dimentica chi è
Il Terzo settore è ancora troppo autoreferenziale. Le organizzazioni più innovative sono schiacciate da un lato da chi è rimasto fermo alla beneficenza e dall’altro da chi confida in un paradiso che ci fa perdonare molto, ma progredire poco. Il riscatto? I giovani

Ci raccontiamo di essere “quelli del bene”, quelli che costruiscono ponti, accolgono, sostengono, curano. Eppure, troppo spesso, dietro le quinte del Terzo Settore si nasconde un paradosso: ambienti in cui il clima è complicato, le relazioni difficili, e la cura per le persone che ci lavorano non sempre viene al primo posto.
Chi lavora nel sociale lo sa: l’aria può diventare pesante. Invidie sotterranee, non detti che marciscono, un welfare interno che resta uno slogan vuoto. In alcune realtà regna ancora una logica familistica, in cui le posizioni si tramandano per legami personali più che per meriti. L’agismo è reale: se sei troppo giovane “non puoi capire”, se sei anziano “sei superato”. Serve invece un investimento convinto sull’intergenerazionalità, dove i diversi sguardi si completano, si contaminano, si allenano reciprocamente.
Resistere al cambiamento è la norma, anche in molte organizzazioni che parlano di innovazione sociale tutti i giorni — e che a volte riescono persino a farla — ma con costi organizzativi interni altissimi: tra burn-out, turnover, confusione strategica e mancanza di energie fresche. Ed è qui che il discorso sui giovani si lega in modo drammatico.
Chi prova a portare innovazione si ritrova spesso isolato o silenziato. E chi chiede riconoscimento per il proprio lavoro finisce per ricevere pacche sulla spalla al posto di risposte concrete.
Si predicano le relazioni, ma si dimenticano i compiti. Si coltivano rapporti personali, ma si trascurano le competenze. Le emozioni diventano a volte una scusa per non affrontare responsabilità chiare. L’autoreferenzialità dilaga: “noi siamo diversi”, “noi siamo i buoni”, “noi siamo il cambiamento”. Ma a dirlo siamo bravi tutti. A viverlo, un po’ meno.
E proprio l’autoreferenzialità è una delle ferite più profonde: un’incapacità diffusa di dialogare con chi è diverso, con chi porta linguaggi, metriche o visioni altre. Il mondo del profit, ad esempio, è spesso guardato con sospetto, come se per statuto non potesse occuparsi di sociale. Eppure, sarebbe auspicabile costruire una maggiore osmosi tra profit e no profit: tavoli di confronto e lavoro tra fondazioni di comunità e corporate benefit, soprattutto quando la dichiarazione comune è quella di impegnarsi per uno sviluppo sostenibile e per la crescita sociale, culturale ed economica dei territori di appartenenza e azione. In questa direzione, è importante riconoscere il lavoro che da anni portano avanti reti come Assifero, che ha fatto della filantropia strategica un percorso di capacity building: sostenendo concretamente lo scambio, la capacitazione, l’interdisciplinarità tra fondazioni italiane, con uno sguardo attento anche al panorama europeo e internazionale.
Nel frattempo, la managerialità resta un grande assente in molte organizzazioni no profit, dove manca una reale cultura della gestione, della misurazione, della pianificazione. Dove si continua a confondere la buona intenzione con la buona esecuzione.
E non si può tacere l’elefante nella stanza: gli stipendi molto bassi. Operatori e operatrici che vivono in una condizione di povertà strutturale, spesso giustificata dalla retorica secondo cui dovrebbero essere “grati” per il solo fatto di occuparsi di qualcosa di significativo. La vocazione viene usata come moneta di scambio per evitare un riconoscimento economico e contrattuale dignitoso. E a tutto questo si aggiunge l’assenza quasi totale di un sistema di benessere organizzativo: pochissimi strumenti per sostenere la conciliazione vita-lavoro, il tempo, l’energia, la qualità del lavoro quotidiano.

Sia chiaro: non tutto il Terzo Settore è così. Esistono realtà evolute, mature, che negli anni hanno superato la retorica e la storica separazione tra profit e no profit, che oggi andrebbe ripensata. Organizzazioni capaci di riconoscere che l’innovazione nasce da un genio collettivo, dal mescolare saperi, dal mettere insieme i know-how per rispondere meglio a bisogni sempre più complessi. Sono quelle che provano a costruire futuro, non solo a rincorrere l’emergenza. Quelle che sanno che la vera missione è aumentare il numero di persone raggiunte, le sfide affrontate, la qualità delle risposte.
Ma, spesso, sono anche le organizzazioni che fanno più fatica. Schiacciate da un lato da chi è rimasto fermo alla beneficenza, nascosto dietro i proclami di una filantropia strategica che dice molto e fa poco; e dall’altro da chi confida in un paradiso che ci fa perdonare molto, ma progredire poco.
Eppure, una possibilità di riscatto enorme esiste: sono le nuove generazioni. Ragazzi e ragazze che nel loro DNA hanno già interiorizzato gli ESG – ovvero i criteri ambientali (Environmental), sociali (Social) e di governance (Governance), che oggi rappresentano una nuova bussola valoriale per valutare l’impatto e la sostenibilità delle organizzazioni. Questi principi non sono solo competenze tecniche, ma parte di una cultura esistenziale: un modo di essere, di lavorare, di scegliere. Una lente che usano ogni giorno per guardare il mondo.

Hanno una naturale inclinazione a leggere la realtà in modo sistemico e interconnesso, e questo li porta a chiedersi – con ostinazione e urgenza – se quello che fanno abbia davvero senso, se contribuisca a un futuro condiviso, se l’impatto delle proprie scelte sia all’altezza della complessità che li circonda.
La loro idea di futuro non ruota più attorno alla casa di proprietà o alla famiglia tradizionale. Molti di loro sanno già che vivranno a lungo in nuclei fluidi, con reti affettive scelte, e si immaginano già anziani in un silver cohousing, ma non in solitudine: con amici, relazioni, connessioni costruite lungo la vita, in luoghi dove il prendersi cura è reciproco e quotidiano.
Le loro preoccupazioni sono planetarie e quotidiane: “Quello che faccio serve?”, “Sarà anche il futuro dei miei coetanei in altre parti del mondo?”, “Sopravviveremo a una nuova guerra o a una nuova pandemia?”. E come scrive Gianluca Delzio, questa è una generazione pronta a rinunciare a carriera e prestigio se il lavoro non è coerente con i propri valori, e in particolare con una visione del lavoro come spazio di libertà, impatto, autenticità.
E il Terzo Settore, che dovrebbe per missione essere il loro primo approdo, non è quasi mai pronto ad accoglierli, ascoltarli, trasformarsi insieme a loro. È un paradosso tragico. Perché proprio lì, dove si dovrebbe coltivare il futuro, si finisce spesso per respingere chi porta davvero il futuro dentro di sé.
Questi giovani sono i veri giacimenti del futuro. Energia, sguardo lungo, creatività diffusa, impazienza trasformativa: tutto ciò che il Terzo Settore dovrebbe saper intercettare, valorizzare e accompagnare. Non per “usarli”, ma per co-creare con loro un nuovo modo di intendere il cambiamento sociale. E invece si tende ancora a inquadrarli, a “farli crescere” in modelli che non riconoscono più come legittimi, a chiedere loro gratitudine in cambio di missioni senza orizzonte.
Chi li perde, perde tutto.
Perché quel futuro che tanto temiamo, che pensiamo ancora lontano, in realtà è già qui. È il futuro che poi equivale al presente. È nei loro occhi, nelle loro scelte, nella loro urgenza di senso.
È tempo di guardarsi allo specchio e riconoscere che non basta fare del bene per farlo bene. Perché bene e buono non sono sinonimi.
Foto di Marija Zaric su Unsplash
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