Storia e ambiente

Fiumi e alluvioni, il Medioevo insegna la mentalità anfibia

Uno stile di vita flessibile, capace di adattarsi alle minacce e opportunità legate ai corsi d’acqua: è l’insegnamento che possiamo trarre dal medioevo. Oggi, in un mondo completamente diverso, la lettura delle cronache di secoli fa narrano di problemi sono simili a quelli attuali. Marco Panato, ricercatore a Nottingham, studia il rapporto con i fiumi di chi viveva in pianura padana nell’alto medioevo e spiega perché – incredibilmente - si può instaurare un dialogo con l'attualità.

di Elisa Cozzarini

«Da secoli, gli abitanti della pianura padana si confrontano con alluvioni, più o meno catastrofiche. Nel medioevo si sviluppò quella che potremmo chiamare una “cultura anfibia”, per usare le parole della storica olandese Petra van Dam: uno stile di vita flessibile, capace di adattarsi alle minacce e opportunità legate ai corsi d’acqua. Oggi, in un contesto completamente mutato, possiamo comunque trarre un insegnamento da quei tempi lontani», dice Marco Panato, ricercatore all’Università di Nottingham. I suoi studi combinano storia, archeologia e ambiente. Di recente ha pubblicato, per Amsterdam University Press, il libro River and Society in Northern Italy, concentrandosi sulla valle del Po nell’alto medioevo.

Marco Panato, foto dal suo profilo LinkedIn

Qual è il messaggio che possiamo trarre dal passato, pensando al nostro rapporto con i fiumi?

Non si tratta di copiare le soluzioni di un tempo, perché il mondo contemporaneo ha esigenze profondamente diverse. Ma è interessante notare che i problemi sono simili a quelli narrati nelle cronache medievali. Si può quindi instaurare un dialogo con l’oggi. Ciò che ci suggeriscono quelle società è un cambio di prospettiva, la ricerca di un’elasticità mentale ora assente. Adesso la fa da padrone quasi solo la logica del profitto. A questa si possono aggiungere esigenze culturali locali, come quelle di cui parla il geografo Francesco Visentin proprio in un’intervista a VITA. L’unica vera lezione che possiamo prendere dalla storia è quella di adottare la mentalità anfibia descritta da Petra van Dam: il fiume diventa uno spazio da comprendere, da gestire, da non snaturare, perché, nel lungo periodo, forzare le dinamiche per metterle al servizio dell’uomo non funziona.

Non è un caso che l’idea di una mentalità anfibia arrivi dai Paesi bassi…

Van Dam è una storica dell’età moderna, ma lo stesso concetto è discusso, in ambito urbanistico, anche per il presente, in una terra che da sempre fa i conti con l’acqua. Secondo questo approccio, lo spazio fluviale viene considerato un sistema caratterizzato da dinamiche naturali, da mantenere il più possibile e a cui adattarsi. Nella pratica, si tratta di lasciare libere le piane alluvionali, anche rendendole produttive per attività agricole. D’altra parte, sono luoghi che sin dalla preistoria venivano usati per il pascolo, la pesca o la caccia. A questo si aggiunge la gestione di un reticolo di canali, per preservare i centri abitati e utilizzare la forza delle acque per produrre energia. In sintesi, la mentalità anfibia significa vedere non solo il pericolo del fiume ma anche le opportunità, e sfruttarle nel modo più ecologico, per evitare di snaturare completamente lo spazio del fiume.

Lei porta l’esempio dei consorzi di bonifica per la gestione diffusa dei territori, accostandoli alle pratiche orizzontali di epoca medievale. Ma non sempre i consorzi operano in modo ecologico…

È vero, ci sono luci e ombre. Ma è interessante sottolineare che questi enti nascono dall’esigenza delle popolazioni locali. Non sono stati creati dai governi centrali… La prossimità territoriale potrebbe essere un’occasione per ricreare una cultura anfibia. Spesso invece sono percepiti come lontani, enti di cui la popolazione non comprende il funzionamento e le logiche. Partono dal basso, ma poi si chiudono in un circolo di ultraspecialisti e non dialogano con l’esterno. Le decisioni vengono prese dai direttivi, senza coinvolgere la cittadinanza. In alcuni casi, però, anche in Italia ci sono consorzi più partecipi della vita delle persone. Sono strumenti che nascono per la comunità e questa dovrebbe avere un ruolo nella gestione. In Nord Europa, l’informazione su questi temi è molto più trasparente. Se ne discute sin dalle elementari. L’educazione della cittadinanza è uno strumento fondamentale per elaborare politiche territoriali che rispondano alle vere esigenze degli abitanti.

Cosa sappiamo di come si rapportavano le genti medievali con i fiumi?

Nella società contemporanea, la dimensione economica è dominante. Le genti medievali, invece, avevano altri riferimenti e una diversa prospettiva. Tutta l’Italia contava otto milioni di abitanti, nell’alto medioevo. Nella narrazione delle vite dei santi, spesso sono presenti i fiumi. Di San Frediano si narra che deviò il corso del Serchio, mentre di San Colombano, si dice che proteggeva i monaci e la propria reliquia dalle zanzare. Molte le storie di attraversamenti, come quella di San Cristoforo. Le alluvioni, nelle cronache dell’epoca, sono punti di riferimento, eventi che riguardano tutti, dal re al poveraccio. Eppure le persone si insediavano vicino ai corsi d’acqua. Quelle società erano caratterizzate da una resilienza molto profonda: la comprensione dell’ambiente permetteva di tenere saldo il rapporto con il fiume, senza alienarlo, con una gestione orizzontale dello spazio fluviale. Ma ciò non significa che non ci fossero problemi, anzi. Le fonti, per lo più ecclesiastiche o regie, danno conto di conflitti frequenti, legati alle risorse naturali.

Ci spiega come avvenivano le dispute?

Ennodio, scrittore a cavallo del V e VI secolo, narrando la vita del vescovo di Pavia, Epifanio (466-496 d.C.), racconta una vicenda accaduta dopo una grande alluvione, quando il futuro santo era ancora diacono. Venne inviato, presumibilmente lungo il Po, o il Ticino, a risolvere una controversia legata al fatto che il fiume si era spostato in seguito alla piena. Epifanio tentò di fare da paciere ma il contadino Burco non ne volle sapere: lo cacciò via con una bastonata in testa. Molte dispute riguardavano lo sfruttamento degli spazi fluviali e delle risorse: il pascolo, la pesca, il taglio della legna. Spesso i conflitti nascevano tra i poteri ecclesiastici e le comunità. Scenario di uno di questi fatti è la famosa Abbazia di San Silvestro di Nonantola, in provincia di Modena, fondata nell’VIII secolo per volere di Astolfo, re dei Longobardi, che aveva donato il terreno a suo cognato, Anselmo. Dieci uomini della comunità di Flexum, un toponimo che indica l’ansa del fiume ed è presente ovunque nelle aree di pianura del Nord Italia, nel dicembre dell’824, in epoca carolingia, si presentarono davanti al giudice del re e all’avvocato dell’abbazia a Reggio Emilia, per chiedere il rispetto dei propri diritti sul fiume. Sembra che per farsi valere avessero anche portato un documento, probabilmente falso, concesso dal re longobardo Liutprando (712-744 d.C.). Il giudice decise in favore dell’abbazia regia. Gli abitanti di Flexum non solo dovettero rinunciare ai diritti di sfruttamento, ma ricevettero delle bastonate – pure loro! – , perché avevano osato disturbare il tribunale regio.

In apertura San Frediano devia le acque del Serchio, Galleria degli Uffizi (foto di Filippo Lippi – Web Gallery of Art:   Immagine  Info about artwork, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=5774775)

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