Minori stranieri non accompagnati

Sotto lo stesso cielo, sulla stessa scena: così il teatro crea la comunità

Lo spettacolo "Radici in movimento", andato in scena il 25 giugno, è stato un'emozionante performance sull'inclusione. Non solo per i testi, ma anche per gli attori. Minori stranieri non accompagnati, operatrici e attori - anzi, matt-attori - dell'Accademia della follia hanno recitato insieme, lasciandosi sorprendere e mettendosi in gioco. E così da questa esperienza ciascuno ha imparato qualcosa che porterà per sempre con sé

di Veronica Rossi

Cos’è la comunità educante? Ballare insieme. Non è la risposta che ci si aspetta, ma è la prima che viene in mente di fronte allo spettacolo “Radici in movimento”, rappresentazione teatrale andata in scena il 25 giugno a Trieste nel contesto del progetto “I minori stranieri non accompagnati cittadini attivi della comunità educante”, con capofila il centro di formazione professionale Civiform, finanziato dall’impresa sociale Con i bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto alla povertà educativa infantile.

In una calda serata estiva, «sotto lo stesso cielo, sulla stessa scena» si sono esibiti, hanno riso e si sono emozionati insieme matti, minori stranieri non accompagnati ed educatrici di varie realtà dell’accoglienza triestina. E l’hanno fatto con un’energia e una connessione che illuminavano il cortile della comunità di accoglienza dove è stata eseguita la performance. Lo spettacolo è la tappa finale di un laboratorio durato tre mesi in cui, a cadenza settimanale, ragazzi e operatrici hanno lavorato insieme all’Accademia della follia, la compagnia teatrale composta da “matti per mestiere, attori per vocazione”. «È stato molto interessante mettere assieme delle fragilità», dice Cinzia Quintiliani, coordinatrice dell’Accademia, «quella della follia da una parte con la fragilità del minore. Questo ha facilitato l’integrazione e ha creato delle relazione. E oltrettutto per noi è stato aprire una conoscenza in un campo totalmente sconosciuto e quindi capire molto di quello. È stato uno scambio in cui i ragazzi sono stati protagonisti».

Far rete per costruire comunità

Il progetto in cui la performance si inserisce è molto ampio: due anni di lavoro e di impegno per costruire una rete che sappia supportare e accompagnare nel cammino dell’inclusione i minori stranieri non accompagnati. «Abbiamo cercato di creare quella che viene definita una “comunità educante”, a tutto tondo», spiega Annalisa Orlando, coordinatrice del progetto per Civiform, «sono state coinvolte a livello operativo le realtà dell’accoglienza del territorio, ma anche le istituzioni pubbliche, quindi i servizi sociali dell’azienda sociosanitaria, la questura, il tribunale dei minori, e le associazioni di volontariato e gli enti di formazione. Ci siamo seduti insieme ai tavoli di lavoro e abbiamo affrontato diverse tematiche legate all’accoglienza». Il percorso si prefiggeva, tra le altre cose, di raccogliere buone prassi e condividerle, tenendo al centro l’attenzione alle persone in arrivo, per tutelarne la dignità e valorizzarne le capacità. Per questo, dal 2023 sono stati realizzati una ventina di corsi rivolti agli operatori dell’accoglienza e una decina di laboratori che hanno coinvolto i minori, tra i quali due percorsi di teatro, lo scorso anno e questo.

Una persona seduta su uno sgabello, con attorno altre persone sedute a terra, dietro un muro in pietra

«Ora saprò cosa rispondere a chi critica l’accoglienza»

Il teatro è un’attività che – per definizione – aiuta a mettersi nei panni degli altri. «È stata un’esperienza molto bella e completa sul piano personale», racconta Franco Cedolin, uno degli attori dell’Accademia della Follia, «perché io in genere li vedevo spesso nella mia città, Trieste, mentre salivano sull’autobus o andavano in giro. Mi ha colpito vedere che sono dei ragazzi che, pur nella loro esuberanza, hanno delle fragilità; sono lontano da casa, arrivano a piedi dalla rotta balcanica, devono sottostare a trattamenti che a volte diventano anche brutali della polizia di frontiera. Tante volte noi italiani brontoliamo: ma perché si spendono soldini per questi ragazzi? L’opinione pubblica non sempre li vede di buon occhio. Ora, se qualcuno li criticherà, saprò rispondere e dare la mia testimonianza: sono bravi ragazzi, educati e tante volte fanno anche un po’ tenerezza».

Cedolin fa parte della compagnia da otto anni, ci è entrato perché ha avuto dei problemi di salute mentale ed era seguito dai csm; oggi sta meglio e, grazie all’Accademia, ha attorno quella rete che gli serve come sostegno nei momenti più difficili. Una comunità – appunto – che non è esclusiva, ma inclusiva, una grande famiglia in cui le diversità possono trovare uno spazio e mescolarsi, convivere e conoscersi. «La nostra realtà è abituata al teatro integrato», afferma Antonella Carlucci, la regista, «quindi siamo abituati ad avere attraversamenti e a ricevere ospiti. Siamo solitamente molto accoglienti. In questo caso è stato ancor più interessante perché abbiamo fatto parte di un sistema di accoglienza per i minori stranieri non accompagnati. La vera integrazione non è metterli in un posto e tenerli là, ma farli entrare nell’humus del territorio. Ed è questa l’idea del teatro che portiamo avanti: la diversità come patrimonio di una società più sana».

Il palcoscenico, una piattaforma per il futuro

Ma ai ragazzi è piaciuto partecipare al laboratorio teatrale? «Ho imparato tante cose», racconta Ismail Khan, uno degli adolescenti coinvolti, che ha partecipato sia a questo laboratorio che alla sua edizione precedente, lo scorso anno. «Ho conosciuto molte persone, ho potuto parlare anche un po’ di più l’italiano». Il ragazzo viene dal Pakistan, è partito 15 anni e ha affrontato la rotta balcanica. A scuola, aveva già avuto esperienze di teatro, ma l’esperienza con l’Accademia della follia è stata del tutto diversa. «Sono stato contento, tutti erano molto bravi», dice. Adesso ha davanti a sé un futuro che gli sembra più roseo del passato che si lascia alle spalle: «Vorrei cominciare a vivere la vita che desideravo, studiare e lavorare», confida.

Per i minori stranieri non accompagnati, essere calati in un contesto reale è uno dei modi più utili per imparare la nostra lingua. E il laboratorio con l’Accademia della follia è stato un ottimo esercizio, secondo Eliana Arnò, insegnante di italiano in una comunità di prima accoglienza di 2001 Agenzia sociale, cooperativa multiservizi che opera in territorio giuliano. Gli adolescenti in arrivo dovevano interagire, dire il loro nome, cercare di capire le indicazioni che gli venivano date.

Così le operatrici hanno imparato a sorprendersi

«È stato un incontro meraviglioso», racconta l’insegnante di italiano. «Partecipavano diverse comunità, c’era una commistione di ragazzi che magari erano stati in più strutture e ritrovavano altri operatori, altri compagni di viaggio. È stato commovente vedere i minori interagire con le persone dell’Accademia che hanno delle caratteristiche peculiari, riuscendo pian piano a entrare in contatto con loro».

E com’è stato calcare la scena per le educatrici e le operatrici? «Era importante metterci in gioco, come stavano facendo i ragazzi», conclude Arnò. «Prima dello spettacolo uno di loro mi ha detto “No, io mi vergogno”, ma poi l’ha fatto. Anche noi, come operatrici, educatrici, insegnanti di italiano e coordinatrici dobbiamo imparare a buttarci, a sperimentare. Questo percorso ci ha insegnato ad aprirci alle sorprese: quando è arrivato l’invito a partecipare non tutta l’équipe con cui lavoro era convinta, alcuni pensavano che i minori che accogliamo potessero non essere predisposti. In realtà aprirci a fare teatro ci ha dato la possibilità di scoprire che i ragazzi hanno delle risorse che noi non ci aspettiamo».

Nell’articolo immagini dello spettacolo fornite dall’ufficio stampa

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