Sostenibilità

Sartorie sociali: l’economia circolare si mette il vestito buono

di Arianna Monticelli

Detenuti, migranti, donne vittime di violenza, persone con disabilità o diverse fragilità: attività, dalle mille origini e forme, propongono una moda alternativa sempre più richiesta e apprezzata

Economia circolare, sostenibilità ambientale, inclusione, contrasto alle povertà, riscatto e realizzazione personale, ma anche bellezza, creatività e tendenza. Sono tante le parole che formano la fitta trama delle sartorie sociali in Italia, luoghi dove ancora prima dei tessuti ci sono relazioni e progetti su misura per persone che qui trovano, nel cucito e nel riciclo tessile, nella produzione etica e nell’artigianalità, un motivo di rinascita o una forma di “cura”. 

Il fenomeno, in continua crescita, rappresenta una sorta di visible mending (la tecnica del rammendo visibile, che non nasconde i difetti del capo di abbigliamento, ma vuole esaltarli, ndr) comunitario.  Perché nei laboratori sartoriali ago e filo sono la giusta opportunità per molti per ricucire gli “strappi” della vita. Detenuti, migranti, donne vittime di violenza, persone con disabilità o diverse fragilità: attività, dalle mille origini e forme, propongono una moda alternativa sempre più richiesta e apprezzata. Protagoniste sono associazioni, cooperative, imprese sociali, accomunate dal potere trasformativo della creatività solidale e da un modello virtuoso condiviso.

Sono laboratori che ridefiniscono il concetto di lavoro in chiave di relazione, scambi culturali, crescita reciproca e identità; recuperano saperi artigianali, con la valorizzazione di figure come sarte e modiste; talvolta ricuciono anche il tessuto sociale, dando nuova linfa a quartieri periferici o spazi urbani in disuso; molte utilizzano tessuti di recupero, altre di filiera etica in arrivo da Africa e Asia. Sempre più, nascono collaborazioni tra le diverse realtà e anche il mondo dell’alta moda, la seconda industria più inquinante al mondo, non può non guardare con interesse a questi esempi etici, sostenibili e di qualità. «Una risposta chiara alla fast fashion, dove anche quando la produzione non è un capo unico, parliamo comunque di una decina di esemplari» sottolinea Piero Ferrante del Gruppo Abele, che grazie a un crownfunding, ha avviato nel 2021 “In-tessere”, sartoria per donne in condizioni di vulnerabilità al centro diurno di Barriera di Milano a Torino. 

Sartoria sociale della Drop House del Gruppo Abele

Detto questo, valorizzare il buono della moda, oltre al bello, non è così semplice e per le sartorie sociali è fondamentale fare massa critica, per mostrare che un’altra via è possibile e per renderla, soprattutto, percorribile nel lungo periodo. A inizio 2025, diverse di queste realtà si sono unite per condividere buone pratiche e promuovere strategie comuni. Sono 40 ad aver aderito alla Rete Nazionale delle Sartorie sociali, dalla stessa “In-Tessere” del Gruppo Abele a Mani Tese, con la sua sartoria Manigolde, nata nel 2020 nel carcere di Finale Emilia ad Action Woman di Castel Volturno (Caserta), dove in un bene confiscato alla camorra lavorano donne nigeriane e italiane. Ad affiancare le sartorie aderenti, c’è anche un forte partenariato, tra cui Università Cattolica del Sacro Cuore, Accademia delle Belle Arti di Napoli e Slow Fiber, che riunisce aziende italiane della filiera tessile di moda e arredamento verso il ritorno a un modello produttivo positivo e rispettoso. L’idea della Rete è nata a Termoli, in un territorio molisano segnato dalla crisi del polo del tessile, dal circolo Arci di Guglionesi, il Parco Letterario Francesco Jovine e l’associazione culturale Artemusa.  Tra le realtà coinvolte anche la piattaforma di e-commerce Gioosto, per la definizione di strategie commerciali in grado di connettere le sartorie con una crescente fascia di consumatori. 

Da tempo sono attive altre esperienze minori di collaborazioni tra sartorie sociali. Mafric, brand nazionale di moda etica e sostenibile, riunisce una rete di una decina di realtà medio-piccole, tra Milano e Como, che con simili sinergie garantiscono continuità di impiego a diverse persone, pur conservando la propria identità. Quella della Rete nazionale è però un’assoluta novità. Patrizia Ghiani, di “InTessere”, è stata coinvolta dal primo momento: «Il desiderio della nostra sartoria è che le persone possano riprendere in mano i fili della loro vita. La Rete è uno strumento importante perché questo si realizzi sempre di più e per dare respiro alle tante esperienze di valore». Ma quante sono le sartorie sociali in Italia? La Fondazione onlus Progetto Legalità, in una prima mappatura del 2019, ne aveva registrate 73 con uno studio della cattedra di Geografia e ricerca visuale del corso di laurea in Sociologia delle reti, informazioni e innovazione dell’Università di Catania. Oggi – secondo quanto diffuso con la presentazione delle Rete – si arriverebbe a 90. Ma il panorama è in continua, e rapidissima, evoluzione. 

Sartoria sociale della cooperativa La Grande Casa

Solo pochi giorni fa, a Macherio (Monza e Brianza) la cooperativa La Grande Casa, con Spazio3R (atelier sociale di Milano) e il sostegno di Fondazione Cariplo e Fondazione della comunità MB, ha aperto un laboratorio di sartoria creativa per offrire un’occasione di ripartenza a donne in condizione di fragilità che, dopo percorsi comunitari di protezione e tutela, potranno acquisire competenze spendibili nel mercato del lavoro. Coinvolta anche Cucitoridisogni, sartoria nata da Fondazione Monza Insieme Onlus, formata da detenuti della casa circondariale di Monza e donne straniere di Spazio Colore della Caritas. Il jeans recuperato è protagonista ed evidenzia il valore del riciclo ma anche la possibilità di riscatto: reperiti nella rete territoriale vivranno una seconda vita, nella loro unicità. A Monza, a marzo 2025, dedicato alla rigenerazione di capi fallati, è nato invece Laboratorio Clorofilla  nella comunità mamma-bambino della cooperativa Carrobiolo 2000, per aiutare le donne a ricostruire l’autostima e sviluppare una nuova rete sociale e professionale. 

Prodotti realizzati in carcere al Como. Foto: Davide Bordogna

Nel 2024 al carcere Bassone di Como è partito un servizio di riparazione sartoriale eseguito da detenuti/e e aperto al pubblico. Il cliente può lasciare i vestiti nei punti di ritiro (biblioteche, botteghe solidali, librerie) su un territorio vasto, da Como a Varese, con il progetto Filodritto, gestito dalla sartoria sociale comasca CouLture Migrante. Continua ad ampliarsi invece il progetto TaivèUn filo per l’integrazione, nato 2009 su iniziativa di Caritas Ambrosiana per promuovere l’inclusione lavorativa e sociale di donne in situazione di fragilità. A novembre 2024 è stato aperto un negozio al quartiere Casoretto di Milano con prodotti realizzati da scarti tessili ma anche per la riparazione sartoriale. In 15 anni il progetto ha generato l’inserimento lavorativo di 45 donne, da 20 paesi del mondo. Un secondo negozio è stato inaugurato a maggio 2025. 

Spesso, a guidare le esperienze è la filiera etica che porta in Africa. Brododibecchi è nato da un’idea di Matteo Piano e Luca Vettori, campioni nazionali della pallavolo: crea abbigliamento con cotone organico, biologico, certificato fair trade e da cotone pregiato di scarto made in Italy, con l’aggiunta del cotone wax africano. I capi sono realizzati artigianalmente in Italia nei laboratori della Onlus Articolo 10 di Torino, che si occupa di reinserire nel mondo del lavoro donne migranti. Sacche e borse sono invece cucite in Congo, a Goma, con l’obiettivo di valorizzare la formazione artigianale di donne e uomini. A usare il tessuto wax è anche Faburama Ceesay che, arrivato dal Gambia a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), ha creato Kano sartoria sociale, oggi parte della Rete nazionale. Lui nasce come sarto-stilista nel suo paese; in Italia dal 2014, crea manufatti con il tipico tessuto coloratissimo ma anche con lino, canapa e cotone, tutti in arrivo dall’Africa, nel massimo rispetto della filiera etica. Alcuni capi sono legati a progetti sociali in Rwanda e Gambia.  

Sartoria sociale Taivè

Lo scorso maggio la Rete nazionale è arrivata in Parlamento, dove è stato sottoscritto il manifesto d’intenti, presentato dal coordinatore Giorgio Gagliardi e dal presidente, Maurizio Varriano. «Ora però è tempo di passare alle proposte concrete – sottolinea Gagliardi -. Stiamo lavorando per aprire un Emporio dei tessuti in Toscana, dove ricevere in entrata i tessuti donati e gestire in uscita quelli funzionali alle diverse tipologie di sartorie. AltreMani di Sesto Fiorentino potrebbe gestirlo. Anche l’idea di aprire negozi come presidi culturali dove la desertificazione commerciale si espande è tra gli obiettivi della Rete. Le sartorie sociali possono rappresentare sempre più la terza via, etica, inclusiva e sostenibile, oltre la fast fashion e i grandi marchi dell’alta moda». 

Foto di apertura: Barbara Verduci 2024 © FAI

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