Minori

Misure penali sotto i 14 anni? «Rieducare in comunità è sempre la scelta più giusta»

Luca Villa, procuratore del tribunale dei minori di Milano, commenta gli sviluppi della vicenda dei bambini rom che hanno investito e ucciso Cecilia De Astis: «Uno ha provato a fuggire dalla casa famiglia, i primi giorni è normale. All'inizio è difficile, ma tanti di questi ragazzi poi colgono l'opportunità e a 18 anni chiedono il prosieguo. Le strutture e gli educatori però vanno sostenuti»

di Chiara Ludovisi

«Un percorso rieducativo in casa famiglia è sempre possibile, bisogna sempre provare. Tanti ragazzi, collocati contro la loro volontà, hanno poi compreso, apprezzato e colto l’opportunità che veniva loro offerta. E a 18 anni hanno chiesto di poter rimanere in comunità, fino al raggiungimento dell’autonomia»: Luca Villa è procuratore del tribunale per i minorenni di Milano. Di storie, spesso drammatiche, ne ha viste tante, ma non ha perso la fiducia: nella giustizia da un lato, nell’intervento sociale e rieducativo dall’altro. Perché la pena non può mai essere l’unica possibilità: tanto meno quando si parla di un minore, o perfino di un bambino. Sta seguendo da vicino il caso dei quattro bambini rom che a Milano, hanno investito e ucciso Cecilia De Astis. E non ha dubbi: «Il percorso educativo e rieducativo deve essere sempre tentato, non si deve mai dire che è impossibile».

C’è chi sostiene che si dovessero intraprendere misure penali, nei confronti di questi bambini. Sarebbe stato possibile?

Sì, è vero che si possono attivare misure di sicurezza anche sotto i 14 anni, ma i presupposti sono molto stringenti: deve riscontrarsi una pericolosità tramite atti di violenza contro le persone – i minori rom, al contrario, di solito commettono reati contro il patrimonio e non erano imputabili a loro altre vicende. Lo stesso omicidio, gravissimo, è tuttavia di natura colposa e non esprime un’indole violenta e pericolosa. In ogni caso l’intervento penale è utile e quando cogliamo un pericolo di recidiva o il sintomo di problematiche importanti, procediamo con l’interrogatorio anche nel caso del minore sotto i 14 anni, prima di chiederne il proscioglimento. Questo ci aiuta a conoscere meglio la situazione e ad accendere un faro sul minore stesso e a intervenire con le altre misure. 

Escluso quindi l’intervento penale, quali possibilità restavano?

Le misure amministrative o rieducative, innanzitutto, di solito utilizzate e molto adatte a minori in cui si sospetti una deriva deviante e per cui riteniamo utile l’intervento dei servizi. Purtroppo, però, la riforma del 2024 ci ha letteralmente tagliato le gambe: questa riforma prevede che la Procura, per mettere in atto interventi importanti come il collocamento comunitario, prima deve chiedere al tribunale di predisporre un progetto educativo e solo al suo esito si può provvedere all’affidamento al Servizio o al collocamento in comunità. Ma si tratta di una riforma che aveva in mente soprattutto il bullismo scolastico. Lo si vede dagli esempi di attività contenute dalla norma (laboratori teatrali, corsi di scrittura creativa, di musica e altre attività artistiche), che nei casi più gravi che quotidianamente ci troviamo ad affrontare non solo sono inefficaci, ma non sono neppure praticabili. Pensiamo ai tanti casi in cui veniamo contattati direttamente dagli  ospedali e dalle neuropsichiatrie, perché c’è un minore ricoverato – pensate alle fughe di casa,  ai problemi di tossicodipendenza, alle crisi adottive, a maltrattamenti nei confronti di famigliari, a disturbi alimentari gravi, ai casi di ritiro sociale, a vere e proprie depressioni maggiori –  che deve essere ricollocato e non può tornare in famiglia come ci chiesto dagli stessi genitori: prima potevamo chiedere un provvedimento urgente, ora dovremmo attendere l’esito del primo periodo di osservazione del progetto educativo, che ovviamente non può essere attivato in ospedale. 

Non resta pertanto che presentare un ricorso urgente per limitare la responsabilità genitoriale con il “rito Cartabia”: in altre parole dobbiamo ravvisare una inadeguatezza anche in genitori che magari in passato avranno sbagliato qualcosa con i figli, ma che sono assolutamente disponibili a collaborare con l’autorità giudiziaria e con i Servizi e che rischiamo di vittimizzare. È l’ennesimo caso in cui si chiede all’autorità giudiziaria un ruolo di supplenza e una torsione del quadro normativo, avendo approvato norme che non tenevano conto dei dati di realtà e, penso, ancora una volta senza aver ascoltato chi si confrontava sul campo con i problemi reali. 

Tornando al caso recente, se si confermerà che i bambini non sono mai andati a scuola, l’intervento civile si rivela corretto. In questi casi, il collocamento in comunità e il percorso educativo rappresentano la strada giusta, è intervento che deve essere tentato, nella consapevolezza che più i minori sono piccoli, più possibilità si hanno di raggiungere dei risultati efficaci. L’età del minore è cruciale per la riuscita dell’inserimento in comunità e quindi del reinserimento sociale. Secondo la mia esperienza, la linea di confine sulla tenuta del collocamento si pone intorno ai 12 anni: dopo quell’età, è più difficile che il ragazzo si adatti e colga l’opportunità che gli viene offerta. 

Luca Villa

Infatti uno di loro è fuggito…

Sì, ma è stato subito trovato e ricollocato in comunità. La fuga è frequente, soprattutto all’inizio: i primi giorni sono i più complicati, spesso i ragazzi non ne vogliono sapere di stare in comunità. Ma poi, se gli educatori sono bravi e la struttura funziona, spesso comprendono e apprezzano quell’opportunità. Tanti di questi ragazzi, collocati contro la loro volontà, chiedono il prosieguo dopo i 18 anni, per completare il loro percorso verso l’autonomia. Nessuno è irrecuperabile: ricordo un ragazzo di 13 anni, che ho seguito nel 2007 perché aveva collezionato una lunga serie di borseggi davanti alla stazione centrale tanto da vedersi dedicato una intera pagina del Corriere della Sera accompagnato dalle solite dichiarazioni sull’irrecuperabilità di questi minorenni. La prima volta che l’ho incontrato ha cercato di rubarmi un Ipod in ufficio! Nessuno avrebbe scommesso sul suo futuro. Lo abbiamo collocato in una comunità nel bresciano. Inizialmente non voleva, poi dopo qualche mese mi ha detto che non voleva tornare in famiglia. Dopo 5 anni, l’ho rincontrato con la sua famiglia affidataria: aveva fatto un buon percorso di studi, aveva conseguito un diploma, lavorava con un artigiano ed era sereno. È la prova che bisogna sempre tentare, anche nei casi apparentemente più disperati.

Insomma, sempre meglio la comunità del carcere minorile?

Molto meglio. Il carcere, oltre a essere sovraffollato, per questi ragazzi non serve ad altro che a fare “curriculum”. Alcuni ragazzi non aspettano altro che andare in carcere, per provare quella esperienza e dimostrare poi di essere un vero delinquente. Questo dà loro autorevolezza in un certo mondo. Alcuni finiscono ad avere successo, dopo il carcere, con la musica trap… 

Sono attratti dal carcere e fuggono dalle comunità?

Sì, accade. Un minore che sente bisogno di protezione accetta volentieri il collocamento in comunità, ma uno convinto che il mondo gli sia ostile ci metterà del tempo per apprezzare il vantaggio di contesto educativo che lo riavvicini ai valori della convivenza civile.

Molto dipende dalla qualità delle strutture e degli educatori, che però in molti casi sono allo stremo…

Certo, molto dipende da quello. Per questo bisognerebbe destinare più risorse a questi contesti. Tante strutture rischiano di chiudere e gli educatori sono sempre più difficili da trovare, perché con il loro lavoro non riescono a mantenersi. Oggi tante strutture possono permettersi solo il minimo indispensabile, mentre servono percorsi educativi affascinanti per i ragazzi. Bisogna sostenere questi percorsi, nell’interesse di tutta la comunità. Senza dimenticare che, tra l’altro, un minore in comunità non solo sta meglio che in carcere, ma costa anche molto meno. E ha molte più possibilità di costruire il proprio futuro e di rappresentare in futuro una risorsa e non un costo perla società. 

Che ne sarà ora dei quattro bambini rom e delle loro famiglie?

Tre sono in comunità, un altro deve ancora essere trovato. La fuga delle famiglie ha fatto dire a qualcuno che avremmo dovuto subito intervenire con l’articolo 403 del Codice Civile (allontanamento del minore dalla famiglia, ndr), ma io credo che si debba dare al giudice l’opportunità di valutare e scegliere e non c’erano i presupposti per un collocamento anticipato, tanto più in presenza di genitori che avevano contribuito alla ricostruzione dei fatti portando i figli agli interrogatori e convincendoli a rispondere. La fuga è un fatto certamente grave e certamente ha cambiato gli scenari imponendo l’applicazione dell’art 403 cc, ma l’assedio dei media al Campo nomadi ha certamente contribuito. Anche i mezzi d’informazione dovrebbero riflettere sul proprio ruolo. E spero lo facciano.

Foto apertura Unplash

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