Idee Disuguaglianze

Ricchi e poveri: a ogni classe la sua malattia e il suo storytelling

Le differenze di classe producono sofferenze diverse, ognuna degna di rispetto e attenzione, ma solo quelle delle classi più agiate vengono pienamente riconosciute e narrate nella cultura mainstream. Riconoscere che esistono patologie di classe significa capire che il malessere assume forme diverse a seconda del capitale sociale, culturale ed economico di cui si dispone; è questo il primo passo verso la costruzione paziente di comunità dove il valore delle persone non dipende né dal loro successo né dal loro impegno, ma dalla loro capacità di tessere relazioni di reciprocità e cura

di Simone Cerlini

Michela Marzano, nel suo Volevo essere una farfalla  (Mondadori, 2013), racconta come l’anoressia sia il prezzo pagato per rispondere a un’aspettativa impossibile: essere perfetti in un mondo che misura il valore delle persone in base all’eccellenza. Marzano, già deputata parlamentare, già direttrice del Dipartimento di Scienze Sociali alla Sorbona di Parigi, premio Bancarella, scrittrice, filosofa e politica, confessa la propria ferita, da figlia di un professore di economia e nipote di un celebre politico magistrato. L’anoressia di Marzano non è solo una questione individuale. È il sintomo di una cultura che Michael Sandel, nel suo La tirannia del merito, ha descritto con precisione chirurgica: quella delle élite educate che trasformano l’infanzia in una corsa a ostacoli verso l’ammissione nelle università prestigiose, dove ogni voto, ogni attività extracurricolare, ogni momento libero deve essere ottimizzato per il successo. La ribellione, che Marzano vede come la reazione alternativa nelle famiglie (delle élite, ma di questo Marzano non si accorge, vittima di un élitecentrismo molto più chic dell’eurocentrismo), per nulla rischiosa, non è altro che l’atteggiamento della “classe disagiata” di Ventura, composta dai figli dei ricchi che non si piegano ai ditkat famigliari e cercano la Bohème. Il problema è che volte si perdono per la disponibilità troppo ampia di risorse che permette loro pieno accesso alle sostanze psicotrope.

Una celebre ricerca di Arthur H. Crisp e colleghi (1976) trovò una maggiore predisposizione all’anoressia nervosa fra studentesse di scuole private, tipicamente frequentate da classi più agiate, rispetto a scuole pubbliche (1 su 100, di contro a 1 su 550 nelle scuole pubbliche). Uno studio successivo del 2001 di David McClelland e Crisp su un campione ampio di donne con anoressia confermò che il disturbo colpisce prevalentemente le classi sociali più elevate, anche se la gravità del disturbo non è legata alla classe sociale ma ad altri fattori individuali e familiari. Oggi l’anoressia è distribuita in modo più uniforme, in correlazione alla diffusione di una certa comunicazione.

“I miei figli per l’istruzione si sono arrangiati da soli. Avevamo troppo da lavorare, noi”. Questa frase, pronunciata con orgoglio da una madre commerciante durante una cena di famiglia, racconta un’altra storia. È la storia della maggioranza silenziosa che nel Manifesto della classe dei servi ho chiamato la “classe dei servi”, coloro che percepiscono sé stessi come quelli che servono a qualcosa per qualcuno: persone per cui il lavoro non è espressione di sé ma risposta ai bisogni degli altri. In queste famiglie, l’aspettativa non è l’eccellenza ma l’autonomia. Non “devi essere il migliore” ma “non devi pesare”. Non “realizza il tuo potenziale” ma “arrangiati”. È una differenza che genera patologie diverse: se l’anoressia è la malattia dell’eccesso di aspettative, cosa dire dell’ansia da prestazione dei figli della classe operaia che arrivano all’università? La “sindrome dell’impostore” – quel senso di inadeguatezza che colpisce chi proviene da famiglie non laureate quando accede a posizioni di prestigio – è l’altra faccia della medaglia. La sindrome dell’impostore è collegata al senso di non appartenenza nei contesti in cui si è tra pochi o nessun altro con caratteristiche simili (ad esempio in ambienti di lavoro o accademici dominati da persone bianche o di classe media/alta). Ciò è particolarmente evidente nelle donne afroamericane e nelle persone della working class, le quali, a causa delle barriere sociali, si sentono più isolate e insicure nel loro valore reale. Se Marzano si ammala per essere all’altezza, altri si ammalano per la paura di non esserlo mai abbastanza, di essere “scoperti” come intrusi in un mondo che non gli appartiene.

In Italia, questa divisione assume contorni ancora più netti. Da una parte, i figli privilegiati cresciuti nella cultura del “devi farcela”, sottoposti a quello che la sociologa Annette Lareau (Unequal Childhoods, 2003) chiama concerted cultivation – ogni momento dell’infanzia orchestrato per massimizzare le opportunità future. Dall’altra, i figli delle famiglie working class cresciuti nella cultura dell’ “arrangiati”, quello che Lareau definisce “accomplishment of natural growth” – più libertà, meno pressione, ma anche meno strumenti per navigare i codici culturali delle élite.

Se sentite una qualche irritazione a leggere questa analisi siete dalla parte giusta. Il problema è che qui ci stiamo arrovellando sui disagi di coloro che ce l’hanno fatta, ma gli altri stanno molto peggio: la salute mentale e fisica risente fortemente delle condizioni socioeconomiche e delle discriminazioni vissute da gruppi marginalizzati. Le disuguaglianze sociali rappresentano infatti un importante fattore di rischio per la salute mentale. Le persone appartenenti a classi sociali economicamente più svantaggiate presentano tassi significativamente più alti di depressione, ansia e disturbi psicologici in generale. Ad esempio, la prevalenza di depressione può essere fino a 1,5-2 volte maggiore rispetto alle classi sociali più agiate (fino ad arrivare ad abuso di alcool, sostanze e sucidio, che causano quelli che Anne Case e Andus Deaton chiamano “i morti per disperazione”). Inoltre, il rischio di schizofrenia nelle persone con status socioeconomico basso è circa 8 volte superiore rispetto a chi ha status alto. I gruppi marginalizzati, come le minoranze etniche, sperimentano tassi più elevati di malattie mentali aggravate da discriminazione, esclusione sociale, razzismo e difficoltà di accesso ai servizi sanitari. Questi fattori generano stress cronico, isolamento sociale, ansia e disagio psicologico elevato. Inoltre, la discriminazione multipla (es. genere, origine etnica, classe sociale) aumenta ulteriormente il rischio, soprattutto per donne e bambini di tali gruppi. Anche le disuguaglianze di istruzione, reddito e condizione lavorativa influiscono negativamente sul benessere psicologico e sulla probabilità di sviluppare disturbi mentali, creando un gradiente sociale nella salute mentale che si trasmette anche tra le generazioni. Ma attenzione, la sperequazione è anche in ambito fisico, non solo mentale: le disparità sociali sono associate a malattie croniche più diffuse nelle classi basse, come il diabete, e a condizioni di salute complessivamente peggiori con maggiore mortalità e morbilità.

Le cliniche private per i disturbi alimentari delle figlie delle élite esistono, i disturbi della working class sono affidati a servizi pubblici insufficienti e i servizi per l’ansia da mobilità sociale dei figli degli operai sono fuori da ogni possibile immaginazione

Questa però non è una gara a chi sta peggio. Il paradosso crudele è che le differenze di classe producono sofferenze diverse, ognuna degna di rispetto e attenzione, ma solo quelle delle classi più agiate vengono riconosciute e narrate nella cultura mainstream. I memoir sull’anoressia riempiono gli scaffali delle librerie e diventano bestseller, i racconti della depressione da inadeguatezza sociale sono relegate a testi specialistici. Le cliniche private per i disturbi alimentari delle figlie delle élite esistono, i disturbi della working class sono affidati a servizi pubblici insufficienti e i servizi per l’ansia da mobilità sociale dei figli degli operai sono fuori da ogni possibile immaginazione. Anche la risposta del servizio pubblico ai bisogni soffre di élitecentirsmo, perché se è concepita dall’alto verso il basso dalla classe dirigente, è figlia dei pregiudizi di chi comanda.

Riconoscere che esistono patologie di classe significa capire che il malessere assume forme diverse a seconda del capitale sociale, culturale ed economico di cui si dispone. L’anoressia di Marzano, l’ansia del figlio del commerciante e i morti per disperazione sono conseguenze di un sistema valoriale distorto che ha trasformato l’educazione in una gara e il lavoro in una performance. La vera questione non è scegliere tra la tirannia del merito e la rassegnazione all’immobilità sociale, ma immaginare forme di riconoscimento che non passino solo attraverso l’eccellenza accademica o professionale. Forme che valorizzino quella che nel Manifesto della classe dei servi ho chiamato la capacità di rispondere ai bisogni concreti e ai desideri degli altri, di “servire a qualcosa” nel senso più nobile del termine.

Forse è tempo di raccontare altre storie e ascoltare cos’hanno da dirci persone estranee ai salotti buoni. Perché se è vero che ogni classe sociale ha le sue patologie, è altrettanto vero che ogni classe ha anche il suo modo di elaborarle e le sue forme di resistenza e di cura. E queste forme – dal mutuo soccorso operaio alle reti di solidarietà familiare, dalla cooperazione alla condivisione dei saperi pratici – potrebbero insegnarci che esiste un’alternativa tanto alla corsa all’eccellenza quanto alla rassegnazione: la costruzione paziente di comunità dove il valore delle persone non dipende né dal loro successo né dal loro impegno, ma dalla loro capacità di tessere relazioni di reciprocità e cura.

Foto di Jose Mizrahi su Unsplash

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