Sgombero
Milano, Leoncavallo: sotto sfratto anche un’idea di città
La vicenda dei sigilli al centro sociale occupato ha generato un rincorrersi di reazioni. Per molti, non è soltanto uno spazio autogestito ma un modo di vivere la cultura in città. Secondo Bertram Niessen, progettista e fondatore dell’agenzia di trasformazione culturale CheFare, «nella mobilitazione collettiva e intergenerazionale di queste ore, si può leggere l’occasione per rinsaldare reti e trovare nuova linfa»

«Sono arrivati. Ci stanno sgomberando. Accorrete numerosi». Tre frasi su Instagram e un fiume di condivisioni hanno annunciato questa mattina le operazioni di sfratto del Leoncavallo, storico centro sociale occupato di Milano, un luogo simbolo da 50 anni. L’ufficiale giudiziario era atteso per il 9 settembre, dopo che diversi presidi negli scorsi mesi avevano scongiurato i sigilli. Oggi però, intorno alle 7,30, le forze dell’ordine si sono presentate in via Watteau.
«Lo sgombero del centro sociale Leoncavallo segna la fine di una lunga stagione di illegalità», ha dichiarato in una nota il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. «Per trent’anni quell’immobile è stato occupato abusivamente. E al danno si è aggiunta la beffa: lo Stato costretto persino a risarcire i danni dell’occupazione». Il riferimento va allo scorso novembre, quando il Ministero dell’Interno era stato condannato a risarcire tre milioni ai proprietari dell’area proprio per la mancata evacuazione. Intanto, gli attivisti hanno organizzato un’assemblea pubblica nel tardo pomeriggio di fronte allo spazio chiuso. «Ora decide Milano», scrivono sui Social.
Una storia lunga mezzo secolo
«Sabato 18 ottobre è stato occupato, ripulito e reso agibile lo stabile una volta sede di tre piccole aziende, ma ormai in abbandono da diversi anni». Recita così il primissimo volantino distribuito nel 1975 dal comitato di occupazione dell’area dismessa di 3600 mq in via Leoncavallo 22. Soltanto tre anni dopo nasce il gruppo Mamme antifasciste di cui oggi tutti i quotidiani scrivono: «Il 18 marzo 1978 vengono uccisi, a colpi d’arma da fuoco», si legge sul sito del centro sociale, «Fausto Tinelli e Lorenzo “Iaio” Iannucci, militanti del Leoncavallo e impegnati in una contro inchiesta sullo spaccio di eroina nel quartiere. Il giorno dei funerali le fabbriche scioperano, e 100mila persone gremiscono piazza Duomo. Le madri di Fausto e Iaio e altre donne del centro sociale danno vita al gruppo “mamme del Leoncavallo”, impegnandosi nell’immediato alla lotta contro l’eroina».
Nel 1994, il primo allontanamento e il trasferimento nell’attuale sede di via Watteau. Una storia di militanza culminata nell’ultimo anno in un susseguirsi di sfratti annunciati, tanto che nei mesi scorsi (come scrive l’Ansa) l’associazione Mamme del Leoncavallo aveva presentato una manifestazione d’interesse al comune per un immobile in via San Dionigi.
Un sentimento di appartenenza
C’è un senso di appartenenza a cui forse non eravamo più avvezzi nei messaggi di vicinanza e sgomento che, di fronte alla notizia dello sgombero, si rincorrono sul web. Per molti, il Leoncavallo non è un semplice centro sociale ma un’idea di città, un luogo che in vari modi ha abitato l’anima di Milano.

Bertram Niessen, progettista, docente e autore, con la sua CheFare si occupa di trasformazione culturale e vive a Milano da quasi trent’anni. Perché quei sigilli smuovono tanto? «Il Leoncavallo è stato uno tra i più importanti spazi occupati della città, probabilmente il più inclusivo per la capacità di integrare mondi diversi», risponde. «Da lì sono passate decine di migliaia di persone, spesso in fasi cruciali delle rispettive biografie. Quel luogo racchiude pezzi della storia e dell’identità di individui appartenenti a generazioni anche lontane tra loro. Questo ha dato vita a un legame affettivo molto forte che spero non si esaurisca in un moto di indignazione passeggera e che si traduca invece in un elemento di generatività politica. Che cosa si può fare ora? È a partire da questa domanda che si potrà trasformare un sentimento individuale in azione collettiva».
Una cultura che non chiede permesso di soggiorno
Che cosa rappresenta il Leoncavallo per Milano? «In 50 anni è stato molte cose, a volte quasi in contraddizione tra loro. In origine, spazio di antagonismo politico di militanti della sinistra extraparlamentare, poi terreno di sperimentazione culturale e laboratorio di forme di partecipazione e cittadinanza attiva», continua Niessen. «È stato ed è soprattutto un luogo di consumo e produzione di cultura popolare: economica, accessibile, spesso gratuita, una cultura che non chiede il permesso di soggiorno. Questo è un aspetto fondamentale e dal valore enorme in una città come Milano, caratterizzata negli ultimi anni da un modello di sviluppo che tende a espellere progressivamente fuori dai suoi confini le classi meno benestanti e che dunque produce una cultura basata su forti contraddizioni».
Quali? «Milano è costantemente in cima alle classifiche dei consumi culturali: è una delle città in cui la spesa pro capite per spettacoli teatrali, cinema e libri è tra le più alte, ma è anche la città in cui le librerie indipendenti chiudono e aprono con un forte turnover, sintomo di instabilità». È anche qui che si gioca il senso di appartenenza al Leoncavallo: «Ha messo a disposizione di tutte e tutti la fruizione e l’ibridazione di forme di sapere ora molto pratiche, ora auto organizzate ora autoprodotte. Dai laboratori di digitalizzazione alla cucina popolare all’esperienza di rilevanza internazionale de La terra trema: potrei stilare una lista lunghissima di innesti che hanno saputo dialogare e contaminare Milano. Costituiscono una forma di capitale culturale e sociale che entra in circolo nella città e la rende un posto più fertile».
Un’altra Milano è possibile?
Nell’appello per la raccolta fondi lanciata dal centro sociale «per creare una Cassa di Resistenza», si legge: «Crediamo che un’altra Milano sia possibile e questo è ancora il sogno di tante e tanti abitanti che non intendono consegnare la città ai cementificatori». Da dove può nascere un’altra Milano? «Non ho la risposta. Che il modello della città sia in crisi, non è una novità di oggi. Vero è che, per una realtà come il Leoncavallo, una frattura come questa può diventare un’opportunità di rilancio e rinnovamento di forme e linguaggi. Nella mobilitazione collettiva e intergenerazionale di queste ore, si può leggere l’occasione per rinsaldare reti e trovare nuova linfa. C’è bisogno di scoprire nuovi modi di stare nel presente e dunque nel futuro».
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In apertura uno scatto dello sfratto del centro sociale Leoncavallo a Milano (Foto Claudio Furlan/Lapresse)
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