Giustizia

Luigi Pagano, nuovo garante di Milano: «Voglio far dialogare Terzo settore e carcere»

Nominato dal sindaco Beppe Sala come Garante delle persone private della libertà personale del capoluogo lombardo, Luigi Pagano dice: «Milano è una città ricca di volontariato di grande qualità, forse manca una logica di insieme per quanto riguarda il carcere»

di Ilaria Dioguardi

Dopo 40 anni di lavoro in carcere «mi sembra il coerente completamento», dice Luigi Pagano, fresco di nomina come garante delle persone private della libertà personale di Milano. Direttore di diverse carceri italiane, tra cui San Vittore dal 1989 al 2004, è stato vicecapo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – Dap. «L’aspetto sociale è quello che mi interessa di più. Vedendo la popolazione detenuta di oggi, per me è molto importante l’interfaccia con il territorio».

Pagano, lei nel 2019 era andato in pensione lasciando il posto di comando al Dap regionale. Come mai ha deciso di continuare a dare il suo contributo?

Mi sembra il coerente completamento di 40 anni di lavoro in carcere, prendendolo da una prospettiva interessante, che è quella del lavoro con gli enti locali che oggi è, forse, l’aspetto più importante del carcere. Mentre un tempo si aveva una composizione detenuta di un certo tipo (la “mala milanese” per intenderci), oggi negli istituti di pena ci sono persone emarginate, con questo non voglio dire che per colpa dell’emarginazione commettono reati, ma sicuramente hanno degli handicap già dall’inizio.

Quando parla di emarginati a chi si riferisce?

Le carceri sono piene di irregolari, tossicodipendenti, persone con problemi psichiatrici, poveri. Sono persone verso le quali forse le politiche sociali sono molto più importanti di quelle penali. Magari come garante posso organizzare il settore esterno, posso essere un’interfaccia importante con il carcere per poter portare fuori molte persone ed attuare, anche in questi casi, l’Ordinamento penitenziario. Mi sembra abbastanza coerente con il mio percorso professionale, una strada verso la chiusura di un cerchio, che mi vede “dall’altra parte” stavolta, se così si può dire: sono garante dei diritti delle persone private della libertà personale dopo essere stato direttore di diverse carceri e vicecapo del Dap. 

I detenuti sono 63.167, a fronte di una capienza regolamentare di 51.274 posti. Ma i posti disponibili sono, in realtà, 46.705 e il sovraffollamento raggiunge il 135%

Perché era urgente nominare subito un nuovo garante, dopo la fine del mandato, lo scorso, 6 agosto, di Francesco Maisto?

Una volta che c’è un’istituzione di garanzia, bisogna dare continuità ad una figura che è importante. Magari non lo è ancora nei fatti perché è un’istituzione nuova, risale a dopo la sentenza Torreggiani che ci condannò in Europa (è una sentenza del Tribunale europeo dei diritti dell’uomo-Cedu, del gennaio 2013, che ha condannato l’Italia per il grave sovraffollamento delle carceri e per trattamenti inumani e degradanti, ndr). Deve ancora essere rodata e non soltanto il garante locale ma anche lo stesso garante nazionale. Però dare continuità a quest’istituzione è un modo per dire: «Noi ci occupiamo anche dell’aspetto penitenziario che in genere, ahimè, la politica tende a mettere da parte».

Nel suo lavoro di Garante, da dove comincerà?

L’aspetto sociale è quello che mi interessa di più. Per me è molto interessante ed importante, come dicevo, l’interfaccia con il territorio: soprattutto in considerazione della composizione della popolazione detenuta di oggi. Già prima lo era, ma un tempo i detenuti in Italia avevano, nella maggior parte dei casi, una casa e una famiglia. Oggi invece molte persone nascono già con handicap di emarginazione: è la politica sociale che deve essere presente. Ne parlerò anche con l’Assessorato al Welfare del comune di Milano, credo che il primo passo sia quello di mettere insieme tutte le componenti sociali che sono disponibili.

Con tutti coloro che vogliono partecipare, nel mondo del volontariato e del Terzo settore, vorrei che si creasse non solo la possibilità di aumentare le risorse da investire, ma anche di allocarle positivamente. Credo che l’interfaccia esterna sia molto importante, come l’accoglienza, un alloggio per dormire: tutto quello che può servire per fare un po’ a meno del carcere e risolvere qualche altro problema. Che significherebbe anche portare fuori un po’ di persone in strutture che possano ospitarle e diminuire (per quel  che può essere fatto) il problema del sovraffollamento,

Il fine pena della maggior parte dei detenuti è di uno-due anni, sono persone che potrebbero ottenere una misura alternativa. Ma molti non hanno una casa e non possono andare agli arresti domiciliari. Non c’è il lavoro, quindi non si possono far lavorare. Il sovraffollamento è un problema che in alcuni istituti tipo Bollate e Opera può essere gestito in una maniera diversa rispetto ad una casa circondariale, che ha limiti d’azione più ristretti. Lavorare con l’interfaccia esterna, secondo me, è fondamentale anche per cercare di aumentare delle attività che si possono fare nelle carceri.

Il fine pena della maggior parte dei detenuti è di uno-due anni, sono persone che potrebbero ottenere una misura alternativa. Ma molti non hanno una casa e non possono andare agli arresti domiciliari

Milano è una città che già è ricca di volontariato di grande qualità, forse manca una logica di insieme per quanto riguarda il carcere, che bisogna cercare di aggregare. Bisogna soltanto coltivare il volontariato milanese e prendere tutto ciò che di buono si può, come del resto ha già fatto il precedente garante, Francesco Maisto, che è un maestro da questo punto di vista.

Secondo gli ultimi dati forniti dal ministero della Giustizia, aggiornati al 31 agosto 2025, i detenuti sono 63.167, a fronte di una capienza regolamentare di 51.274 posti. Ma i posti disponibili sono, in realtà, 46.705 e il sovraffollamento raggiunge il 135%. Secondo un’analisi del garante nazionale delle persone private della libertà personale del 30 maggio scorso, in Lombardia l’affollamento negli istituti di pena raggiunge il 153,28%. Nell’ultima intervista che lei ha rilasciato a VITA, affermava che «non si può fare a meno di una misura deflattiva, che sia la liberazione anticipata, l’amnistia o l’indulto» e che «bisogna cambiare la cultura nelle carceri». Continua a pensarlo?

Assolutamente sì. Bisogna cambiare la cultura nelle carceri, delle carceri e sulle carceri. È chiaro che in una situazione di questo genere, in cui non parliamo di centinaia di persone, ma di migliaia e migliaia di persone, è evidente che soltanto con qualche misura deflattiva, se vuoi, puoi cambiare le cose. Le altre proposte (non ce ne sono state molte, in verità) sono abbastanza nebulose. L’unica proposta è quella di costruire dei container.

Si tratta di 16 moduli prefabbricati in otto istituti penitenziari. Si è dovuto rifare il bando per un aumento nella stima dei costi, che sono lievitati a 45,6 milioni di euro, per 384 posti. La fine dei lavori è prevista per la primavera del 2026.

Serviranno soltanto ad aumentare i detenuti e a diminuire lo spazio godibile per loro, che poi è il fondamento nella vita penitenziaria interna. I container toglieranno spazio ai cortili, a luoghi in cui poter fare delle attività. Consideriamo che l’Italia, con 65mila detenuti, fu condannata con la “sentenza Torreggiani”. Abbiamo superato le 63mila persone, non manca molto a quella cifra. I dati dei posti disponibili bisogna anche saperli analizzare.

Ci spieghi meglio.

Dobbiamo considerare il fatto che, nelle carceri, bisogna attuare delle distinzioni, le categorie non sono omogenee. C’è l’isolamento per motivi sanitari, di giustizia, di disciplina. C’è la media sicurezza, l’alta sicurezza, il 41 bis. Ci sono i nuovi giunti, le sezioni per le persone tossicodipendenti. Voglio dire che non si può calcolare che tutti i posti disponibili sono nelle sezioni in cui c’è effettivamente bisogno di ospitare le persone. Se c’è una sezione femminile di 100 posti e ci sono 50 detenute, 50 posti rimarranno vuoti. I cosiddetti posti disponibili, quindi, diventano meno di quanti vengono denunciati perché, a volte, sono in sezioni che non sono mai piene. La cosa eccezionale, rivoluzionaria, sarebbe quella di applicare le leggi.

Come diceva Lucio Dalla: «L’impresa eccezionale è essere normale». Noi in Italia sappiamo fare le cose eccezionali, ci riesce un po’ più difficile fare le cose normali, le cose che devono essere pensate ed organizzate. Se incominciamo a programmare, vediamo che da un punto di vista amministrativo, di organizzazione e burocratico, cominciamo a essere fallaci. Non si riesce a fare un discorso prospettico rispetto all’aumento dei detenuti, sarebbe fondamentale. La Corte Costituzionale ha sollecitato diverse volte il legislatore di tener conto anche del riflesso delle leggi sull’aspetto penitenziario. Se si continuano a emanare fattispecie penali, ma poi non ci sono i penitenziari con posti sufficienti, non si sa dove mettere le persone.

A seguito di un’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Torino del 5 agosto 2025, per la prima volta, un uomo ristretto nel carcere “Lorusso e Cotugno” ha ottenuto di scontare la pena ai domiciliari (anche) in ragione delle condizioni di sovraffollamento. Che significato ha, secondo lei, questa ordinanza?

Questo pronunciamento è importante. Nel 2013, quando stavamo ancora lavorando per superare la crisi dopo la “sentenza Torreggiani”, ci fu una sentenza della Corte costituzionale, la 279, che dichiarò inammissibili le questioni sollevate dai Tribunali di sorveglianza di Venezia e Milano in merito al sovraffollamento carcerario perché non poteva occuparsene, spetta al legislatore. Ma contestualmente evidenziò la gravità della situazione detentiva, definendola “intollerabile” e in contrasto con i principi costituzionali e convenzionali, sollecitando il legislatore ad intervenire. Sono quei presupposti che poi ha adottato il Tribunale di sorveglianza di Torino. Spero che l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Torino possa essere il presupposto per una normativa ad hoc, così come chiedeva la Corte costituzionale già 12 anni fa.

Foto Rossella Papetti/LaPresse

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