Giustizia
Donne in carcere, dietro le sbarre non c’è cultura di genere
Sono quattro le donne detenute che si sono suicidate in carcere dall’inizio dell’anno. L’ultima aveva 26 anni e si è tolta la vita impiccandosi nella sua cella a Sollicciano (Firenze). Pochi giorni prima un’altra detenuta si era suicidata a Rebibbia. Daniela De Robert, giornalista e vice presidente dell’associazione Volontari in carcere: «Le donne detenute sono il 4% della popolazione detenuta: per questo hanno maggiori difficoltà nelle carceri. Non esiste un pensiero di genere sulla realtà della detenzione femminile»

Nel 2024 sono state due le donne a togliersi la vita in carcere: nel 2025 siamo già a quattro. Le ultime due si sono tolte la vita pochi giorni fa, avevano rispettivamente 52 e 26 anni. La prima si è suicidata a Rebibbia, la seconda a Sollicciano (Firenze), era di origini rumene e viveva in una condizione di grave marginalità sociale. «Il carcere continua ad essere pensato al maschile. Su quel 4% di persone detenute si potrebbe lavorare molto di più. Se c’è una cultura di genere, allora bisogna cominciare a ragionarci anche nell’ambito della esecuzione penale», dice Daniela De Robert, giornalista, che dal 2016 al 2023 è stata membro dell’ufficio del garante per le persone private della libertà personale ed è vicepresidente dell’associazione Volontari in carcere – Vic.
Secondo i dati del XXI Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, «con la chiusura del carcere di Pozzuoli nel giugno 2024 a causa del terremoto, sono oggi solo tre le carceri interamente femminili sul territorio nazionale: Rebibbia a Roma (375 presenze per 272 posti, il carcere femminile più grande d’Europa), la Giudecca a Venezia (102 presenze per 112 posti) e la piccola casa di reclusione femminile di Trani (34 presenze per 32 posti). Oltre l’80% delle donne detenute è ospitato in sezioni femminili all’interno di carceri a prevalenza maschile, che attualmente sono 46».
De Robert, le donne detenute sono molto meno degli uomini: quali sono le maggiori difficoltà delle donne in carcere?
Le donne rappresentano circa il 4% della popolazione detenuta, è un dato costante negli anni. Ci sono una miriade di sezioni femminili più o meno grandi all’interno di istituti maschili. Questo vuol dire che, al di là dei pochi istituti esclusivamente femminili, le donne sono una minoranza. E le minoranze, come sempre succede, hanno meno di tutto. Se si hanno poche risorse, si danno ai tanti e non ai pochi. Se si ha un po’ di spazio, un progetto da avviare o un’attività da iniziare si offre laddove c’è più richiesta, quindi agli uomini, che in carcere sono di più.

Di fatto, così, le detenute donne hanno meno. A volte le sezioni femminili sono talmente piccole, o le presenze delle donne talmente poco numerose, che non si riesce neanche a fare una classe scolastica. Quindi non hanno neanche la scuola, che è il minimo sindacale negli istituti: anche in quelli dove non c’è nulla, la scuola è presente, ma a volte nelle sezioni femminili non c’è. È il paradosso del carcere.
Qual è il paradosso del carcere?
Il fatto di applicare le regole del fuori: in carcere così, esattamente come all’esterno occorre un numero minimo di studenti per formare una classe. Questo vale a Roma, all’Isola di Ventotene, nelle carceri con una sezione di cinque posti, dove è chiaro che non si avrà mai una classe. Anche perché permane la prassi per cui non si fanno classi miste in tutta Italia. Il carcere è un luogo in cui la coeducazione non esiste, anche là dove sarebbe possibile. Nel carcere non è previsto, come non sono previste attività lavorative miste, quindi ad esempio in cucina spesso lavorano solo gli uomini. Le donne in carcere sono una minoranza e hanno meno di tutto: meno spazi, meno campi sportivi, meno palestre, meno attività. E questo è un discorso sul piano della quantità.
E sulla qualità?
Per un discorso di qualità, bisogna partire dal punto di vista di ciò che l’amministrazione dovrebbe fare. Il carcere continua sempre ad essere pensato al maschile, anche adesso che ha una prevalenza di direttrici e di provveditrici donne. Non esiste un pensiero di genere sulla realtà della detenzione femminile. L’unico pensiero di genere che ho trovato in giro è l’uncinetto, che non mi sembra proprio il massimo. Manca un’attenzione alle donne la cui detenzione ha un peso diversissimo sul fuori.
Su una popolazione detenuta di 63.167 persone, le donne sono 2.740, il 4,33% del totale
Quando va via una donna da casa, va via il pilastro del welfare che pesa sulle famiglie. Chi si occupa dei figli, dei genitori, degli anziani, dei malati? Siccome il lavoro di cura pesa in gran parte sulle donne, le famiglie risentono molto più di una detenzione femminile. Questo non può essere un ragionamento che non viene fatto in una società complessa e democratica. L’unico pensiero di genere, sistematico, che c’è sulle donne, è sulle donne in quanto madri, come se la femminilità coincidesse in toto con l’essere madri. E, quindi, si pensa agli istituti a custodia attenuata per le detenute madri – Icam, alle sezioni nido, alle case famiglia protette (pochissime). Siamo a stereotipi vecchissimi.
Le detenute madri con figli al seguito sono in aumento. Secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – Dap, al 31 agosto 2025 sono 16 le donne con 21 figli al seguito, il 31 luglio erano 13 con 18 bambini, il 31 dicembre 2024 erano 11 con 12 figli al seguito.
Il ministero della Giustizia fornisce la fotografia all’ultimo giorno del mese, cristallizzando un dato. Ma nel mese di agosto sono passate in carcere ben più di 16 donne con 21 bambini! Probabilmente arriviamo a 50: i bambini stanno dentro 15-20 giorni, un mese, ma ruotano e sono molti di più. Sono sempre numeri così piccoli che potrebbero essere assolutamente gestiti, come si è riusciti a fare in tempo di pandemia di Covid-19, quando si era raggiunto lo zero. Il Giudice per le indagini preliminari – Gip, il Giudice per l’udienza preliminare – Gup, il tribunale… non si pongono neanche la domanda se la persona ha figli minori, prima di decidere di mandarla in carcere. Mentre durante il Covid-19, il problema si poneva. C’è tutto un non pensiero dietro alle donne come madri, l’attenzione è più sui figli in questi casi: non parliamo di detenzione femminile, ma parliamo di detenzione dei bambini che di fatto sono detenuti con le loro madri.
Da anni, le donne sono mediamente il 4% della popolazione detenuta. Dagli ultimi dati del ministero della Giustizia del 31 agosto scorso, su una popolazione detenuta di 63.167 persone, le donne sono 2.740, il 4,33% del totale.
Questo vuol dire che le donne delinquono meno, un dato positivo che è assolutamente non considerato. Allora su quel 4% si potrebbe lavorare molto di più. Un anno, da volontaria, avevamo organizzato un’attività con Komen Italia per portare in carcere la prevenzione dei tumori femminili, permettendo alle detenute di sottoporsi a mammografia ed ecografia mammaria. In una cella abbiamo sistemato l’ecografo, l’associazione è venuta con il pulmino con il mammografo e abbiamo offerto a tutte le donne la possibilità di fare questi esami. Sono venute molte donne, alcune non avevano mai fatto una mammografia nella loro vita. Una donna era stata operata al seno, avrebbe dovuto fare la risonanza e la mammografia di controllo, ma non riusciva a farle.
Le donne hanno bisogno degli assorbenti, in carcere non tutte se li possono comprare. Alcune direttrici li passano alle detenute, ma spesso non hanno i soldi. Le associazioni di volontariato pensano a fornirli, le stesse che portano gli spazzolini e i dentifrici, i vestiti, i prodotti per l’igiene intima
Daniela De Robert
Con la popolazione detenuta, con quella femminile in particolare (le donne sono moltiplicatrici di prassi), si ha la possibilità di avvicinare, dal punto di vista della prevenzione e della salute, delle persone che fuori non vanno in ospedale, non fanno test. Il carcere può diventare un’opportunità di educazione alla salute perché intercetta le persone che fuori il Servizio sanitario nazionale non intercetta. La scuola è un’opportunità per quella minoranza di donne che ha commesso un reato.
Spesso le donne in carcere sono più sole, rispetto agli uomini?
Sì, è vero. Spesso le donne seguono i compagni, anche nelle situazioni più disperate, e per questo commettono reati. E più facilmente perdono il compagno quando entrano in carcere, e nessuno le segue durante la detenzione, ricevono poche visite. Ci sono nonne e madri con il pensiero dei nipoti e dei figli fuori. Le madri vivono con il terrore di perdere i figli, hanno sempre paura che glieli portino via. Una donna in carcere, se ha figli, vive con l’idea molto forte che, oltre a essere una persona che ha commesso un reato, sia una cattiva madre. La detenzione per le donne che hanno figli, adulti o minori, è vissuta come giudizio anche personale sul rapporto con la famiglia, che hanno in qualche modo tradito. Questo è un elemento che va considerato, secondo me, anche in termini di norme.
Siccome il lavoro di cura pesa in gran parte sulle donne, le famiglie risentono molto più di una detenzione femminile
Ci spiega meglio?
Per le donne andrebbe pensata un’altra modalità di colloqui, con un’altra frequenza. O comunque bisogna pensare che, nelle famiglie, c’è una differenza nel ruolo della donna e dell’uomo, in Italia, oggi. Poi speriamo che cambi, però cominciamo dal presente. L’unica cosa buona che ha portato il Covid-19 è sdoganare un po’ le tecnologie, come la videochiamata. Ma nel 2016, quando cominciai a lavorare nel collegio del Garante, mi ricordo che all’istituto femminile Giudecca di Venezia la direttrice aveva autorizzato ad una donna detenuta che aveva una figlia in età scolastica, di fare tutti i giorni con lei i compiti via Skype. È una cosa che non toglie niente alla sicurezza, perché non c’è nessun pericolo, ma che dà moltissimo. È abbastanza naturale studiare insieme, per mamme e figli, questo fatto ha cambiato la vita di quella donna e di quella figlia. Si perde la bellezza di un momento condiviso così importante come fare i compiti con i figli seppur a distanza, in una cultura generale in cui si pensa solo a punire e sanzionare, in cui si chiede l’aumento delle pene e non c’è mai un pensiero sulla persona.
Non pensare alla persona detenuta lo paga sia la persona detenuta a fine pena sia la collettività. Una donna che in qualche modo ha fatto un percorso e si è riappacificata con un rapporto positivo con la società, uscirà in un modo dal carcere; una persona a cui si è solo tolto (la libertà, la dignità, la possibilità di crescere, i rapporti con l’esterno e con la cultura) ne uscirà in un altro modo.
Tornando ai suicidi delle donne detenute, l’ultima donna che si è suicidata aveva 26 anni, era di origini rumene e senza fissa dimora.
In un carcere come Sollicciano, con una piccola sezione femminile e un grandissimo numero di problemi e di situazioni da affrontare, purtroppo una donna con tanti problemi e in grave emarginazione sociale sarà un problema residuale, è una persona dimenticata da tutti. Non c’è un pensiero positivo, non c’è un’attenzione specifica. E se c’è una cultura di genere, e c’è, allora bisogna cominciare a ragionarci anche nell’ambito della esecuzione penale. È una situazione che è stata completamente ignorata, è una di quelle persone dimenticata da tutti. Bisogna pensare a proposte trattamentali, percorsi, problematiche specifiche delle donne.

Ci faccia qualche esempio concreto.
Andiamo sul pratico. Le donne hanno bisogno degli assorbenti, in carcere qualcuno glieli deve dare perché non tutte se li possono comprare. Alcune direttrici li passano alle detenute, ma spesso non hanno i soldi. Quindi, le associazioni di volontariato pensano a fornirli, le stesse che portano gli spazzolini e i dentifrici, i vestiti, i prodotti per l’igiene intima. Noi abbiamo trovato delle sezioni femminili all’interno di istituti maschili, dove non era presente come specialità il ginecologo, doveva essere chiamato come privato. Il motivo? Perché tanto le donne sono poche. Ma non può essere che, poiché i numeri della popolazione femminile sono residuali, in un contesto di privazione della libertà, per le donne (che spesso vengono da condizioni di marginalità), non si ha lo specialista. Ci devono pensare il carcere o l’Asl, in termini di medicina di genere. Quante donne hanno delle mestruazioni dolorose che richiedono di essere seguite? Bisogna considerare che c’è una gestione di un corpo che è diverso rispetto a quello dell’uomo.
La detenzione per le donne che hanno figli è vissuta come giudizio anche personale sul rapporto con la famiglia, che hanno in qualche modo tradito
In carcere quanto viene portata la medicina di genere?
In carcere la cultura di genere manca totalmente. Mentre fuori si fa la prevenzione dei tumori femminili, è diffusissima l’attenzione alla violenza sulle donne, c’è una cultura che sta crescendo, il carcere è fatto solo a misura di uomo. In carcere non puoi pensare all’oggi e al qui, devi pensare al domani e al dentro in funzione del fuori. Le misure alternative sono molte meno per le donne. Oltre all’uncinetto, si fanno i progetti beauty, ma non è vero che tutte le donne devono fare la nail art e l’estetista. Per esempio, un corso di alfabetizzazione informatica permette di fare, una volta uscite, le commesse e di lavorare nella ristorazione: se non sai usare il tablet, non ti assumono neanche a fare la commessa e la cameriera.
Nell’immagine di apertura, una volontaria di Volontari in carcere – Vic nel carcere Rebibbia di Roma (foto dell’intervistata).
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