Ricerca e salute

Prevenire l’Alzheimer: che cosa sappiamo?

L’impegno e il senso di responsabilità dell'individuo sono condizioni necessarie ma non sufficienti. Per ridurre il rischio di sviluppare una malattia così complessa servono interventi istituzionali e su più fronti. Come si arriva a regole di prevenzione? Ne abbiamo parlato con il neurologo Simone Salemme, al lavoro a un decalogo con Federazione Alzheimer Italia

di Nicla Panciera

«L’individuo può ciò che l’ambiente gli permette». Questo approccio concreto dovrebbe essere sempre ben chiaro nella mente di neurologi, geriatri, esperti di salute pubblica e di chi, specialisti medici, politici e amministratori, si occupa di promozione della salute e di riduzione del rischio. Ne è convinto Simone Salemme, neurologo esperto di neurodegenerazione e dottorando presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. Con Federazione Alzheimer Italia, è al lavoro a un decalogo sulla prevenzione che verrà diffuso in occasione della giornata mondiale del 21 settembre. La prevenzione è oggi più che mai fondamentale per arginare l’ondata di nuovi casi di Alzheimer che si accompagnano all’invecchiamento della popolazione, che ne è il principale fattore di rischio, e all’attuale assenza di farmaci risolutivi. Pur richiedendo l’impegno e il senso di responsabilità della persona, la prevenzione di una malattia così complessa è molto complicata e necessita di interventi istituzionali e su più fronti.

La Lancet Commission sulla prevenzione, l’intervento e la cura della demenza nel 2024 aveva aggiornato il proprio rapporto del 2020 nel quale individuava già 12 fattori di rischio modificabili, aggiungendo ora due nuovi fattori. Bassa istruzione, ipertensione, problemi di udito, fumo, obesità di mezza età, depressione, inattività fisica, diabete, isolamento sociale, consumo di alcol, traumi cranici e inquinamento atmosferico, cui si aggiungono  laperdita della vista non trattata e un elevato livello di colesterolo LDL, il colesterolo cattivo.

La Commissione fornisce anche una stima del peso dei vari fattori, che agiscono differentemente nelle varie fasi della vita. Ad esempio, la perdita dell’udito conta per un 7% e l’isolamento sociale un 5%, cifre che indicano «la percentuale di casi totali di demenza che, agendo su quel singolo fattore, si sarebbero potuti evitare» spiega Salemme. La prevenzione intende agire su quei fattori di rischio, che robuste evidenze legano allo sviluppo della malattia.

Quanto invece alla misura dell’efficacia di ogni singolo intervento di prevenzione, anche per ritagliare misure individualizzate, i ricercatori sono al lavoro e sono numerosi i progetti in corso che puntano a integrare diagnosi precoce e tempestiva e prevenzione personalizzata in diversi contesti sanitari. «C’è certezza sull’efficacia di interventi multimodali, quindi pacchetti di azioni di prevenzione che combinino più fattori, ad esempio l’alimentazione, l’attività fisica, all’aperto e con gli altri, ma quanto ciascun fattore possa ridurre da solo il rischio di sviluppare malattia è molto complicato da calcolare» ammette Salemme. Un recente editoriale apparso su Nature Medicine esorta i ricercatori a impegnarsi proprio su questo fronte: «Gli interventi focalizzati sulla prevenzione della malattia rappresentano una strategia promettente per contrastare la crescente incidenza della demenza, ma sono necessarie ulteriori evidenze da studi clinici per stabilirne la fattibilità e l’efficacia». Insomma, per determinare quali interventi siano efficaci e in quali circostanze.

La demenza non è un evento acuto come un ictus, ha una fase prodromica lunghissima, con cambiamenti patogenetici che precedono di decenni la comparsa di sintomi. «Per questo, gli studi clinici randomizzati sugli interventi basati sullo stile di vita o sui fattori di rischio modificabili sono estremamente difficili da condurre. Uno studio clinico randomizzato, il gold standard della ricerca clinica, richiederebbe una grande quantità di tempo, di denaro e di persone coinvolte ed è molto complesso mantenere un contesto pulito e controllato dei vari fattori in gioco. È sempre necessario fare un bilancio tra il rigore metodologico e la fattibilità realistica. Ci si serve, allora, di tecniche statistiche particolari e dei disegni di studio più adatti di altri». Ad esempio, si conducono studi osservazionali sulla popolazione che vive al confine tra due Stati che hanno diverse politiche di riduzione di un certo fattore di rischio per vedere lo stato della popolazione in risposta alle diverse politiche.

Quel che è certo, è che «per mettere in atto gli interventi necessari sono richieste delle azioni di politica della salute» commenta Salemme. «Ricordo che quasi la metà dei fattori di rischio per la neurodegenerazione sono vascolari, quindi è necessario partire da una comunicazione efficace tra specialisti, neurologo, diabetologo, cardiologo e così via». Come riuscire a cambiare gli stili di vita e i comportamenti delle persone? «In primo luogo, servirebbe una maggior attenzione a targettizzare le campagne informative, ma anche essere consapevoli che la comunicazione permette la crescita della consapevolezza nei cittadini ma non è sufficiente, servono delle politiche, basta vedere cosa è successo con il fumo».

C’è poi la prevenzione secondaria. Per chi ha già dei sintomi cognitivi lievi, come gli Mci (mild cognitive impairment), il controllo dei fattori di rischio cardiovascolare e la modifica degli stili di vita continuano a essere raccomandati per rallentare l’esordio della demenza e rallentare la progressione dei sintomi. «Che possono essere dovuti a una sottostante neurodegenerazione, a malattia vascolare o altro e da tale base fisiologica dipenderà la loro evoluzione» puntualizza Salemme, autore di una revisione della letteratura sull’argomento che mette in luce la grande diversità di prognosi degli Mci. «Nei casi legati a neurodegenerazione, la malattia progredirà. In altri casi, invece, potrà rallentare fino anche a regredire. Su 100 persone con MCI fino a 40 sono casi transitori; questa percentuale aumenta nel mondo reale e diminuisce nel setting clinico, dove all’attenzione degli specialisti arriva già una popolazione selezionata, che è più grave e lì aumenta il tasso di conversione in demenza». Saper prevedere chi evolverà è cruciale in un’ottica di stratificazione dei pazienti candidabili ai nuovi farmaci di recente approvazione.

Foto di ©Luckypix/LAPRESSE

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