Minori fuori famiglia
A Roma aumentano le rette per le case famiglia: «Un primo passo, ma non un traguardo»
Da quasi 20 anni gli enti gestori chiedevano un aumento delle tariffe per le strutture di accoglienza. Casa al Plurale ha calcolato i costi di gestione ed è in prima linea in questa «battaglia per la giustizia. Le rette non sono affatto adeguate, ma è un primo segno di attenzione»

Sono passati esattamente dieci anni da quando, nel luglio 2015, Casa al Plurale ha pubblicato il primo report sui costi di gestione di una casa famiglia per minori o per persone con disabilità, in cui evidenziava la distanza tra i costi sostenuti e le rette ricevute dal comune di Roma. Tanti ce ne sono voluti perché arrivasse la risposta tanto attesa: le tariffe sono state rivisitate corrette, aumentate. Una risposta contenuta nella Deliberazione n. 335, approvata dalla Giunta capitolina l’8 agosto, per “l’adeguamento delle rette per l’accoglienza dei minori e dei nuclei mamma/bambino nelle strutture della Regione Lazio”: questo il titolo della delibera, che fissa che gli “indirizzi per la definizione di un sistema di monitoraggio a tutela della qualità dei servizi”.
La delibera, arrivata in piena estate, porta una boccata d’ossigeno alle case famiglia, a chi le gestisce, a chi ci lavora e a chi le abita, dopo anni di richieste, pressioni, appelli e manifestazioni che hanno più volte fatto temere il peggio: la chiusura di queste strutture, che attualmente accolgono più di mille minori e circa 150 mamme con i loro piccoli: evidentemente, un pezzo fondamentale del welfare locale.

“Adeguamento”, però, è – come si suol dire – una parola grossa: «Le tariffe sono tutt’altro che adeguate», commenta Luigi Vittorio Berliri, presidente di Casa al plurale, coordinamento di 54 case famiglia di Roma e del Lazio. «Certamente la delibera è una buona notizia, che accogliamo con soddisfazione, anche come riconoscimento della nostra tenace battaglia, iniziata oltre 10 anni fa. Le tariffe continuano però ad essere mal calcolate e quindi ingiuste, perché qui è questione di giustizia sociale. Se la legge giustamente ci impone due educatori la mattina e il pomeriggio, è chiaro che questi educatori vanno pagati. E sono solo uno dei tanti costi che chi gestisce una casa famiglia deve sostenere. Ma chi tiene questa contabilità in Regione e al Comune? Qualcuno si è mai seduto, con la calcolatrice in mano, a fare i conti seriamente, come da dieci anni facciamo noi? La risposta è no: e il risultato sono queste tariffe che, anche dopo questo “adeguamento”, continuano a essere inadeguate».
L’ingiustizia si legge tra i numeri
I numeri aiutano a comprendere quale e quanto grande sia l’ingiustizia sociale di cui Berliri parla. L’incremento, disposto dalla delibera a partire dal 1° agosto, è pari al 14%. In pratica, la retta minima per i minori è passata da 100 a 114 euro al giorno, mentre quella per i nuclei mamma-bambino è salita da 83 a 94,62 euro. Secondo i calcoli di Casa al plurale, riportati nell’ultimo aggiornamento del report, il costo giornaliero di un minore in casa famiglia è di oltre 216 euro, tra educatori e professioni di supporto, spese per la casa e oneri amministrativi. Il primo passo, insomma, è stato compiuto, ma il traguardo è ancora molto lontano. «Ed è un traguardo che bisogna raggiungere, perché le case famiglia sono allo stremo, con l’aumento dell’inflazione e di tante spese. Dovremmo ricordarci che questi bambini e questi ragazzi sono affidati alle strutture dal tribunale o dai servizi sociali, non hanno alternativa, perché le loro famiglie sono inadeguate, o addirittura assenti. È un servizio essenziale e indispensabile, a cui devono essere destinate risorse adeguate. Più volte abbiamo minacciato la chiusura: ora riceviamo questa boccata d’ossigeno e finalmente possiamo condividere questa buona notizia. Ma è evidente che non basta».
Un servizio essenziale, ma allo stremo
Quanto sia importante riconoscere e valorizzare il ruolo delle case famiglia, lo ha dimostrato la recente sentenza su Bibbiano: «Un polverone, una grande bolla mediatica», afferma Berliri. «La casa famiglia è un’alternativa necessaria e preziosa laddove la rete famigliare e di affido non sia in grado di provvedere al minore: è chiaro che ci sono casi in cui i bambini e le bambine non possono restare in famiglia. Ma viene data spesso voce a mamme e papà che denunciano di essersi visti strappare i figli, mentre nessuno ascolta mai i bambini o gli educatori. Il primo bambino che accogliemmo in casa famiglia portò la sua testimonianza in tribunale: dopo di questa, i genitori scontarono 34 anni di carcere. Poco prima, la mamma gridava che gli avevano portato via il figlio. Questa è la realtà ed è il motivo per cui le case famiglia esistono e devono continuare a esistere».
Ma le case famiglia non sono carceri, né reparti psichiatrici: è importante che la loro funzione sia chiara, così come i loro limiti d’intervento. «Nel caso dei bambini rom di Milano, per esempio, non dobbiamo sorprenderci né scandalizzarsi se uno di loro ha cercato di fuggire dalla comunità in cui era stato collocato. La casa famiglia non ha e non deve avere le sbarre alle finestre, né le guardie alle porte. La fuga è relativamente facile e anche abbastanza frequente: gli educatori non possono e non devono correre dietro a chi scappa, ma aiutare il bambino a capire il valore di quell’esperienza in comunità. E anche per questo servono risorse, sia umane che economiche», continua Berliri.
Invece, proprio nei contesti più fragili, la carenza di risorse è cronica e rischia di avere conseguenze pesantissime: «Mentre noi a Roma oggi festeggiamo questa piccola vittoria, in Calabria ci sono comunità sull’orlo della chiusura, perché i pagamenti sono fermi da mesi – ricorda Berliri (leggi in proposito l’articolo di Daria Capitani). Come può un educatore, per quanto appassionato, continuare a fare questo lavoro, se questo non gli permette di mantenersi? Questa situazione è gravissima e spero che la regione, ora molto concentrata sulle prossime elezioni, sappia dedicarle l’attenzione necessaria».
Per quanto riguarda le altre regioni, le rette stabilite dalla delibera della giunta comunale sono più o meno nella media. «In generale, le risorse investite sono troppo poche, per un servizio che ha costi molto alti e che non può “tagliare” spese da nessuna parte. L’Uomo ragno diceva che chi ha grande potere ha grandi responsabilità. Io spero che i politici, che di potere ne hanno tanto, siano all’altezza del loro compito. Un modello può essere quello del comune di Milano (qui l’articolo di Sara De Carli) che a fine luglio, con una delibera, ha fatto un bel lavoro di concertazione e ascolto dei territori, adeguando le rette su tutto il sistema di accoglienza. Da parte nostra, abbiamo ottenuto dal sindaco Gualtieri la promessa di sederci tutti attorno a un tavolo, a settembre, per ragionare insieme sui costi e trovare una risposta migliore. Speriamo di coinvolgere anche la regione Lazio, che intanto ha sviluppato un nuovo algoritmo per le case famiglia per persone con disabilità e ha promesso di applicarlo anche alle casa famiglia per minori. Nel frattempo, accogliamo questa delibera della giunta capitolina con un segnale di attenzione, che però deve essere un punto di partenza e non di arrivo».
Foto in apertura da Unsplash
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