Non profit
A Taranto il pane si pagaba prezzo di diossina
AMBIENTE Il dramma della città con il più grande polo siderurgico d'Europa
di Redazione

All’Ilva ci lavorano quasi 20mila persone. In una città con una disoccupazione sopra il 20%. Peccato che i parametri sulle malattie tumorali siano fuori da tutte le medie A Taranto lo ripetono in tanti, fra quelli che accettano di parlare: «Qui tutte le famiglie hanno un fratello, un figlio, un nipote o un padre occupato all’Ilva, ma anche un parente da piangere fra quelli che hanno lavorato lì». Non c’è luogo in Italia dove le contraddizioni dello sviluppo abbiano lasciato ferite tanto profonde come nel Sud della Puglia.
Da una parte la città fallita, annegata in un crac da 500 milioni di euro, che ancora oggi non ha neppure i soldi per pagare le divise dei vigili urbani, dall’altra lo stabilimento dell’Ilva, il più grande polo siderurgico europeo con i suoi 200 km di ferrovia e 70 km di strada interni (per un’estensione pari a una volta e mezza la città). Un polo che negli ultimi quattro anni ha generato al gruppo di riferimento, quello dei fratelli Riva, con quartier generale a Milano, utili per 2,5 miliardi di euro. Di qui un capoluogo con un tasso di disoccupazione che la stessa amministrazione comunale stima ormai superiore al 20%, di là un’industria che, indotto compreso, occupa circa 20mila persone. E ancora: vicini, vicinissimi, il centro storico con la città vecchia e il camino E 312 (212 metri di altezza), la cokeria e l’area a caldo della cittadella dell’acciaio che, a ciclo continuo, sputano diossina, piombo e polonio sull’intera città. Il tutto senza mai violare la legge, perché se Bruxelles ha fissato il limite di emissioni di diossina a 0,4 nanogrammi per metro cubo (misurata secondo il parametro della tossicità equivalente), in Italia (con l’eccezione del Friuli Venezia Giulia, la cui normativa si è allineata agli standard continentali) il tetto è pari a 333 nanogrammi.
La matassa però è intricata. La metafora della bilancia col piatto buono e quello cattivo qui non regge. Le facce sono due, ma la medaglia è la stessa. L’acciaio è insieme il pane e il veleno. Poi c’è l’esodo. Taranto, pur calamitando operai da tutta la provincia e oltre fino a Brindisi e Lecce, dagli anni 80 ad oggi ha perso oltre 50mila abitanti. Spiega il sociologo Antonio Panico : «In questa città la paura di mangiare, di bere e perfino di respirare è sempre più alta, chi può scappa e chi resta spesso si tappa la bocca». In tutti i sensi. Perché anche la voglia di protestare è poca. «La sensazione che abbiamo», gli fa eco la giornalista Paola Casella , fra le prime a denunciare l’allarme diossina sulla testata locale Il Quotidiano , «è che le cose non cambieranno mai». Lei stessa confessa di volersene andare anche se «a 41 anni con un lavoro, seppur precario, avviato in questa città, proprio non saprei dove».
Dubbi, pane e diossina. Difficile prendere posizione. Ancora di più dare sentenze. Non rimane che affidarsi alla realtà. A quello che accade nei tre punti nevralgici della città. La fabbrica, l’ospedale e il municipio. A loro la parola.
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