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Abitare con l’Aids e immaginare il proprio futuro

Fino a un anno fa le case alloggio si limitavano ad accompagnare alla morte le persone affette da Hiv. Ora le ultime terapie consentono di fare progetti e lavorare.

di Daniela Romanello

Milano, ottobre 1988, i giornali titolano: ?Ospedale segreto in città per curare gli ammalati di Aids?. Ma per Mario, da otto mesi ricoverato all?ospedale di Niguarda, quello non è un ospedale. E non lo è per chi lo ha pensato, per chi lo ha costruito, per chi lo gestisce. Per Mario, quella casa in via Zumbini è la ?sua? casa, la casa in cui vivrà gli ultimi mesi della sua vita. Morirà undici mesi dopo e avrà avuto il tempo di dare l?ultimo saluto ai suoi primi ?coinquilini?: Elena che, dopo aver vissuto, già ammalata, in un?automobile, si spegne proprio l?ultimo giorno dell?anno, e Andrea, anche lui reduce da una ospedalizzazione ?forzata?, che li lascerà in un tiepido giorno di aprile. La realtà dell?inizio della casa di via Zumbini, la prima casa alloggio per ammalati di Aids aperta in Italia, è questa: accompagnare alla morte. Termine un po? brutale, forse, ma fino a poco tempo fa, entrare in una casa voleva dire proprio cercare un approdo definitivo per ?vivere al meglio possibile l?ultimo periodo della propria vita?, come più delicatamente spiega Carla Omodei Zorini, responsabile della comunità di via Zumbini e presidente nazionale del C.I.C.A, ossia del Coordinamento italiano case alloggio/Aids. «Già da anni come A77 (l?associazione che ha aperto la prima casa alloggio – ndr)», racconta Carla, «ci occupavamo di disagio giovanile e gestivamo delle comunità per il recupero dalla tossicodipendenza e ci siamo trovati ad affrontare, proprio tra i ragazzi della comunità, la nuova emergenza che si chiamava Aids. Grazie a un lavoro di rete con l?ospedale Sacco e quello di Niguarda, siamo arrivati a decidere di aprire una casa alloggio con questo scopo: dare accoglienza in termini umani e assistenza sanitaria a chi, ammalato, non ha una casa o una famiglia». Da luogo definitivo a provvisorio La vita delle case alloggio è stata quindi scandita, fino al ?96, dal triste ritmo dei lutti: «Le morti erano molto frequenti», ricorda la presidente del C.I.C.A., «e la media di permanenza in casa dei malati oscillava tra i quattro e gli otto mesi. Ma dal 1997, con l?avvento dei nuovi farmaci (gli antiretrovitali e gli inibitori della proteasi), la realtà cambia. Persone accolte in uno stadio molto progredito della malattia, quasi ammalati terminali, con l?introduzione delle nuove cure e la possibilità di vivere in un ambiente ?normale?, con ritmi regolari, affetto, valorizzazione del singolo, hanno iniziato a riprendersi sia nel fisico che nello spirito. C?è chi è da noi da quasi un anno e mezzo: impensabile solo fino a pochi anni fa». Star bene nel fisico, poter di nuovo prendersi cura di sé, vedere che c?è una possibilità in più di speranza nel futuro porta a voler ricostruirsi una vita, ma non solo. Si ripensa alla vita fuori comunità, si ricorda la propria famiglia, si riscopre la capacità lavorativa, si desidera un affetto dimenticato, insomma si riscopre la vita. La casa alloggio sta quindi vivendo questa transizione: da luogo definitivo, in cui si entra per vivere il meglio possibile quello che rimane della vita, a luogo provvisorio in cui si recupera la vita da vivere ?fuori?. Una transizione che è un travaglio, per tutti. «Per chi c?è la fa», spiega la Omodei Zorini, «inizia il problema: dove vado, dove lavoro, eccetera. È la precarietà della vita che si aggiunge alla malattia sopita, ma non completamente domata. Fare progetti fuori comunità vuol dire quindi fare i conti con la propria malattia e con una ?normalità? che non c?è». Ma c?è anche chi muore ancora Questo è il travaglio degli ammalati. Ma c?è anche il travaglio degli operatori che si sono ritrovati a dover ripensare il proprio lavoro e a dover rispondere a domande per le quali non sono ?attrezzati?. I segnali sono diffusi e una delle prime associazioni che li ha voluti sondare sistematicamente è la Lila che, con il finanziamento dell?Istituto Superiore di Sanità, ha avviato una ricerca, tuttora in corso, per la definizione di indicatori utili alla valutazione della qualità delle prestazioni erogate dalle case alloggio. I primi risultati sono stati anticipati nel recente seminario europeo di studi ?Abitare la vita?, svoltosi a Milano e dedicato proprio alla tematica case alloggio e Aids. «La ricerca», si legge nel lavoro presentato, «ha evidenziato forti differenze con il passato tanto nei bisogni degli ospiti quanto nelle prestazioni degli operatori. Soprattutto sul piano relazionale, dalle interviste emerge il desiderio di avviare un processo che li aiuti a riappropriarsi di spazi e momenti di indipendenza rispetto alla casa. Gli operatori, benché consapevoli di queste dinamiche relazionali, sono in forte difficoltà a modificare le proprie prestazioni. Ciò è causato da due motivi: il primo riguarda lo sforzo fatto in passato per ?attrezzarsi? di fronte alla morte; abilità questa che condiziona il loro modo di essere operatori. Il secondo ha attinenza con la paura di dover ritornare alla vecchia impostazione dell?intervento in caso di fallimento delle terapie combinate». «Sì, perché non tutti vivono. Nelle case si muore ancora», ricorda Carla Omodei Zorini, «e gli operatori si trovano a dover affrontare contemporaneamente problematiche diverse e, a volte, contradditorie: c?è chi chiede di cogestire la casa e chi chiede un aiuto per essere indipendente fuori della comunità; c?è chi chiede d?essere curato e c?è chi chiede compagnia nell?ultimo periodo della sua vita; c?è chi sta meglio e fa riesplodere, e con più violenza, i vecchi problemi (tossicodipendenza, squilibri psichiatrici, devianza) e c?è chi pone nuovi problemi. E tra questi se ne affaccia uno nuovo: dieci anni fa abbiamo iniziato con i giovani, oggi l?età media si è attestata sui 40, mentre cresce la quota di pazienti oltre i 60, con alcuni casi che hanno superato anche i 70». Moroni: «Ma diamo loro un lavoro»I nuovi farmaci, quindi, hanno rivoluzionato il pianeta Aids non solo sul piano scientifico, ma anche assistenziale e sociale. ?Riprogettare la vita?, se non vengono date risposte concrete, rischia però di rimanere solo uno slogan, bello ma inefficace. «Se diamo la salute e non creiamo le condizioni sociali perché si possa vivere questa condizione», afferma Mauro Moroni, infettivologo di fama mondiale che, medico, si trova in prima linea anche sul piano sociale, «avremmo fatto un lavoro a metà». «Dal punto di vista psicologico», continua Moroni, «molti sieropositivi soffrono della ?Sindrome di Lazzaro?. Chi ha vissuto per anni in precarie condizioni di salute e ha recuperato le proprie potenzialità lavorative, si ritrova però inadeguato a reimmettersi nel mondo del lavoro: non ha seguito corsi di perfezionamento, non è riuscito a seguire il progredire tecnologico e metodologico, deve rinunziare agli alibi che si era creato. Bisogna creare gli strumenti e fornire le possibilità per aiutarli a cambiare, per la terza volta, le proprie prospettive di vita. Non è facile, ma necessario». Cosa fare, dunque? Mesi fa, proprio il professor Moroni lanciò una ?provocazione? al sindacato che sembrava reo di difendere più le paure dei sani che non i diritti dei malati. Quella provocazione ha sortito l?effetto di un ripensamento da parte del sindacato, di un recupero di una capacità di valutazione della situazione più serena. Ora, è necessario fare un passo in più creando la possibilità di borse lavoro, di lavori part-time, di corsi di formazione, di quant?altro possa fornire gli strumenti necessari a una reintegrazione delle persone sieropositive nel mondo del lavoro. «Certo», continua Moroni, «il momento non è il più propizio considerato che l?occupazione è il problema numero uno del Paese e che, di fronte a una forte offerta di unità lavorative, sono proprio le fasce più deboli a essere penalizzate, ma se non diamo questa prospettiva di vita, la salute da sola può bastare?». E allora il professor Moroni lancia un?altra provocazione: «Creiamo un tavolo di lavoro e attorno a esso chiamiamo non solo i sindacati, ma anche i datori di lavoro, le associazioni e le istituzioni. Per tutelare le fasce più deboli e, con loro, i sieropositivi che ritornano alla vita». Case alloggio al Nord: 41 al Centro: 16 al Sud-Isole: 7 Totale: 64 Età degli ospiti Età media: 44,6 Età minima: 24 Età massima: 70 Fascia 31-40: 55,8% Le regioni ok Lombardia: 22 Veneto: 8 Piemonte: 7 Lazio: 5 Emilia: 5 Le regioni ko Friuli Venezia Giulia: 0 Abruzzo: 0 Basilicata: 0 Calabria: 0


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