Lavoro sociale

“Adesso parlo io”: chi è e che cosa fa il portavoce dei bambini

Oggi c'è una nuova consapevolezza attorno all'importanza della partecipazione di bambini e ragazzi, ma la si pratica pochissimo. In Italia i portavoce indipendenti sono una ventina: per mestiere facilitano la possibilità che i bambini dicano la loro, in situazioni delicate come quelle della tutela minori o a scuola. Chi sono e cosa fanno

di Sara De Carli

Sono poco più di una ventina, in tutta Italia. Sono quelli – anzi quelle, sono tutte donne – che di mestiere danno voce ai bambini: sono i portavoce indipendenti. La prima a sperimentare l’advocacy professionale in alcuni servizi italiani di tutela minorile è stata Valentina Calcaterra, oggi docente di Servizio sociale all’Università Cattolica di Milano. Era più o meno il 2012 e quell’esperienza venne raccontata in un libro, Il portavoce del minore. Manuale operativo per l’advocacy professionale che uscì nel 2014. Paola Turroni, social worker e scrittrice, fu una delle prime a farsi conquistare dalla novità: oggi è la presidente dell’associazione Advocacy. Tutela e voce dell’infanzia e dopo aver accompagnato centinaia di bambini e ragazzi a “trovare le parole per” non ha dubbi sul fatto che «funziona».

La partecipazione è tornata prepotentemente al centro di tanti discorsi. C’è una nuova consapevolezza della necessità di una partecipazione autentica da parte dei ragazzi. Però… tutti ne parlano, ma pochi la esercitano: perché è difficile e soprattutto perché implica un “cedere potere” da parte degli adulti.

Chi è e cosa fa il portavoce? Cos’è e come si fa partecipazione con i più piccoli? Di questo parliamo insieme a Paola Turroni e a Francesca Rolando, educatrice della Cooperativa Animazione Valdocco, che da poco più di un anno fa la portavoce in un centro diurno per minori. Un dialogo volutamente lasciato nella forma dello scambio.

Prendiamola larga. Come va intesa la partecipazione di bambini e ragazzi, come si fa perché non sia solo “di facciata”?

Paola Turroni: È importante innanzitutto chiarire che la partecipazione deve essere consapevole. Non si tratta solo di “esserci” da qualche parte, di dire “ti invitiamo alla tal riunione”: la partecipazione è complessa, è fatta di tempo e di cura dei dettagli, dei passaggi, del linguaggio… Bisogna fare in modo che il processo sia ragionato e strutturato affinché lo stare di bambini e ragazzi dentro un percorso di partecipazione possa incidere sulla loro vita e diventare un’esperienza di crescita. “Ho detto quella cosa e il fatto che l’abbia detta ha cambiato le cose, ha avuto conseguenze”: questo devono poter sperimentare i ragazzi. Se accade questo, l’esperienza della partecipazione può diventare una modalità di stare nella propria vita, di essere più responsabili, di partecipare alla vita sociale e comunitaria. 

Paola Turroni

La partecipazione come processo quindi, con un prima e un dopo.

Paola Turroni: Semplificando, la partecipazione ha tre tempi. La preparazione, in cui si danno al ragazzo le informazioni necessarie, lo si aiuta a prefigurarsi che cosa ci si aspetta da lui o da lei e a chiarire che cosa invece lui si aspetta. Arrivare preparato al momento dell’incontro – penso ad esempio all’incontro con il giudice o con l’assistente sociale – avendo prefigurato le possibili emozioni, le possibili parole e le possibili reazioni dell’altro ti rende più capace di reagire e argomentare. Poi c’è il momento partecipato vero e proprio, che può essere individuale o collettivo, perché c’è anche una advocacy di comunità. E poi il dopo, che è valutazione e osservazione di se stesso e di quello che è successo, il dirsi che cosa serve per monitorare che accadano davvero le cose che sono state dette: a volte gli adulti fanno promesse o dicono “ti farò sapere”, ma con i bambini è importante rendere concrete le modalità sul quando e come verificare, sapere a chi chiedere che cosa. È tutto questo nel suo insieme che permette di trasformare la partecipazione in un’esperienza che modifica la tua vita.

Francesca Rolando: Alcuni dei valori che riguardano la partecipazione molti di noi operatori sociali li hanno nel dna. Quando ho incontrato l’advocacy però mi è stato chiaro quante volte, prima, mi è andato stretto il fatto che i bambini e i ragazzi non fossero perfettamente consapevoli dei loro percorsi. Secondo me questa è una leva potente anche per muovere noi operatori verso altri approcci: anche in medicina si parla di compliance del paziente, nel lavoro sociale il fatto che le persone siano consapevoli e possano dire la loro sulle decisioni che le riguardano le rende anche più d’accordo sui percorsi che stanno facendo. Invece il sistema spesso ci porta a “stare stretti” in altri modi di fare. Io adesso mi definisco prima portavoce e poi educatrice.

“Dire la loro e vedere che questo dire cambia le cose”, avete detto. Che chiaramente non significa che tutto quello che i bambini e i ragazzi chiedono verrà realizzato…

Paola Turroni: No, chiaro, ma questa in realtà è una tipica preoccupazione degli adulti: ho incontrato centinaia di ragazzi e non si sono mai posti in quell’ottica. Certo capita l’adolescente che dice “io voglio” e sbatte la porta, ci sta, ma quando ci si siede a ragionare nessuno guarda alla partecipazione come a una “lampada di Aladino”: a loro interessa argomentare, chiedere dei chiarimenti, comprendere la complessità del sistema, capire chi può decidere o meno rispetto a un loro desiderio o richiesta. Vogliono comprendere la complessità che è in mano agli adulti e che non gli raccontiamo perché pensiamo che nella semplicità si viva meglio, ma non è vero! A me emoziona sempre vedere la voglia che i ragazzi hanno di parlare con gli adulti, a cominciare dal portavoce, che però è fondamentalmente un ponte fra loro e i loro adulti di riferimento. È questo che funziona, il sapere che è la sua assistente sociale che vuole parlare con lui e sapere cosa lui pensa. Per loro è molto importante stare in relazione con gli adulti: quando c’è un ponte sono i primi che ci corrono sopra. Questa immagine del ponte è proprio quella che hanno scelto i ragazzi in un lavoro sulla comunicazione di cos’è l’advocacy professionale che abbiamo fatto con l’associazione: abbiamo chiesto di scegliere alcuni luoghi della città che rappresentassero la partecipazione e fra le tante loro idee geniali c’è stata quella di dire “fotografateci su un ponte, mentre corriamo verso voi adulti”. È bello perché l’hanno vista così: non gli adulti che vanno verso di loro, ma “noi verso gli adulti”. Hanno chiesto di essere fotografati anche su una panchina, mentre urlano, perché il portavoce li aiuta ad “alzare la voce”.  In biblioteca, perché nella advocacy bisogna anche studiare. O mentre fanno la ruota in un parcheggio, per dire che l’advocacy è fare qualcosa di insolito, che ha in sé anche un aspetto di pericolo perché cambia le posizioni di tutti.

Da operatore, cosa si vede proprio cambiare nel momento in cui si utilizzano strumenti e metodi partecipativi?

Paola Turroni: Quello che mi ha motivato fin dall’inizio è il fatto che c’è una trasformazione nella vita delle persone. Non è tanto in senso macro – un bambino in affido resta in affido – però vedi che comincia a cambiare il dialogo tra loro, lo sguardo su se stessi, cominciano ad immaginare di poter esser capaci di fare, che il rapporto con i servizi può essere diverso. Cambia la modalità di stare nella situazione. La partecipazione non è trasformativa della realtà, è trasformativa del proprio modo di starci: questo nel tempo cambia anche la realtà della situazione. Per questo di lavora tanto anche sul “rinominare” la preoccupazione che un adulto porta: la tua insegnante la vede così, tu cosa ne pensi? Come la racconteresti la stessa cosa? la tua assistente sociale è preoccupata per questa cosa, lo sei anche tu? Mi si è spostata la visuale, ogni volta che di mezzo c’è un bambino oggi mi viene naturale – non solo sul lavoro ma anche nella vita privata – chiedermi “cosa ne pensa lui?”. 

La partecipazione non è trasformativa della realtà, è trasformativa del proprio modo di starci: questo nel tempo cambia anche la realtà della situazione

Paola Turroni, portavoce e presidente dell’associazione Advocacy

La mia prima formazione sull’advocacy l’ho fatta un po’ per curiosità, ma ripensando al mio percorso credo che mi abbia segnato un’esperienza che ho vissuto in prima persona: a 18 anni ho avuto un tumore e i medici a un certo punto mi hanno spiegato che volevano provare con la radioterapia. Mi dissero che avrei perso le sopracciglia per sempre. In quel momento per me il tumore passò in secondo piano, la mia preoccupazione erano le sopracciglia, ci piansi per giorni. I medici mi hanno fatto scegliere tra l’intervento e la radioterapia: non c’era tanto margine di manovra, ma ho potuto scegliere. È una cosa che ogni tanto racconto quando faccio formazione, perché dà la misura di come la partecipazione non abbia un limite, non c’è tema in cui non ci sia uno spazio anche piccolo per l’advocacy. Penso per esempio ad una bambina di cui sono stata portavoce, allontanata da casa velocemente: lei inizialmente diceva solo che voleva tornare a casa… Il lavoro fatto con lei è stato quello di capire gradualmente, dentro la sofferenza del voler tornare a casa e del sapere che questo non sarebbe stato possibile a breve, che cosa poteva aiutarla a stare meglio: questo è qualcosa che puoi fare sempre, in qualunque situazione. Lei alla fine chiese di poter avere il peluche con cui dormiva, che era rimasto a casa. Ovviamente l’ha avuto. Questo non ha risolto la sua situazione, ma l’ha fatta stare meglio e le ha fatto fare l’esperienza di poter chiedere, di avere un margine di possibilità per stare meglio.

Non c’è tema in cui non ci sia uno spazio anche piccolo per l’advocacy. Penso per esempio ad una bambina allontanata da casa velocemente: chiese di poter riavere il peluche con cui dormiva. Questo non ha risolto la sua situazione, ma l’ha fatta stare meglio

Paola Turroni, portavoce e presidente dell’associazione Advocacy

Francesca Rolando: Quando ti senti legittimato a chiedere, poi non necessariamente hai bisogno di qualcuno che ti aiuti a farlo. Penso al percorso con una ragazzina, in vista dell’incontro con il giudice che doveva prendere delle decisioni importanti sul suo futuro e sulla sua collocazione: abbiamo parlato di cosa lei desiderava e cosa no e dopo una serie di scambi fatti secondo le sue regole, non necessariamente in presenza, a volte anche solo per messaggio, a un certo punto mi ha detto che non serviva più che ci incontravamo, perché “ho già detto quello che dovevo dire”. Non avevamo preparato o deciso nulla, si è sentita pronta per farlo e l’ha fatto. Il presupposto è sempre che i maggiori conoscitori della propria vita sono le persone stesse, mentre noi operatori spesso ci mettiamo nella presunzione di sapere qual è il loro bene, qual è il percorso migliore per loro. Questo li deresponsabilizza un po’. Dire all’altro “io la vedo così, e tu?”, invece, aiuta tantissimo nel capire se la strada che stai prendendo è quella giusta. Le persone te lo sanno dire.

Francesca Rolando

Mi rendo conto che anche per me inizia ad esserci quell’automatismo di cui parlava Paola, del chiedere sempre a un bambino o un ragazzo “ma tu cosa ne pensi?” e mi stupisce quanto i ragazzi si stupiscano, riportino di non esserci abituati: restano basiti quando presentandomi come portavoce – io il portavoce lo vedo come uno strumento a disposizione dei ragazzi – gli spiego come mi possono usare. “Ah ma quindi io posso dire, io posso chiedere di conoscere meglio la mia assistente sociale, io al processo posso dire che voglio quella cosa?”: c’è sempre un grande stupore da parte dei ragazzi. Un bambino mi ha usata per far arrivare al suo migliore amico il messaggio che gli mancava: non aveva idea di come fare a dire questa cosa al suo amico attraverso le maestre. Una formula che ho rubato a Paola e che uso con i più piccoli è dire che loro sono il mio capo: non è l’assistente sociale che decide che cosa fa il portavoce ma solo e soltanto il bambino. Anche decidere di non usarlo è una scelta. Io non sono un operatore, non sono uno che raccoglie le tue confidenze, non sono uno che decide della tua situazione: io come portavoce non so niente di te, intenzionalmente, se non quello che tu mi vuoi dire. 

I maggiori conoscitori della propria vita sono le persone stesse, mentre noi operatori spesso ci mettiamo nella presunzione di sapere qual è il loro bene. Dire all’altro “io la vedo così, e tu?” aiuta tantissimo a capire se la strada che stai prendendo è giusta. Le persone te lo sanno dire

Francesca Rolando, portavoce

Paola Turroni: È il presupposto dell’advocacy: bisogna guardare i bambini e ragazzi come esseri pensanti, con le loro opinioni. Riconoscergli competenze, pensieri. È importante che loro sentano che i loro pensieri possono essere riconosciuti. Il portavoce lavora solo dove il bambino e ragazzo lo desidera: il messaggio potente è che l’operatore sospende la sua progettazione perché gli interessa quello che il ragazzo ha da dire. Nel mondo anglosassone, dove il portavoce è previsto per legge, ci sono varie associazioni, un numero verde e chiunque può chiedere un portavoce per se stesso: in Italia invece si passa sostanzialmente da sperimentazioni e progetti, poi c’è la nostra associazione e l’albo per vedere chi sono e dove lavorano i portavoci indipendenti.

Abbiamo citato diverse esperienze all’interno dei percorsi di tutela minori. Ci sono anche altri ambiti in cui il portavoce può lavorare con bambini e ragazzi?

Paola Turroni: Certo, a cominciare dalla scuola. Prima media, gli insegnanti descrivono la classe come una classe che non comunica, con conflitti con una ragazzina che ha l’insegnante di sostegno per una difficoltà non ben chiara, che fa lunghe assenze da scuola e quando c’è tende a provocare, con i compagni che la accusano di approfittare della sua condizione. Ovviamente gli insegnanti avevano provato ad affrontare la questione, ma quello che ha cambiato le cose è da un lato il fatto che il portavoce è indipendente e trasparente rispetto al suo interesse: mi interessa questa cosa qui e che la classe stia bene, non altro. Questo crea un ambiente di fiducia. L’altra scelta vincente è stata quella di dare a tutti, singolarmente, la possibilità di esprimere il proprio punto di vista  rispetto al problema: se l’avessimo affrontato in gruppo si sarebbero ripresentate le dinamiche del gruppo. Alla fine avevamo 24 fotografie delle situazione e 24 possibili strategie di intervento: un sacco di materiale da discutere.

Abbiamo parlato anche con la ragazzina, che ha portato il suo punto di vita e ha proposto alcune possibili soluzioni: lei in realtà soffriva molto del fatto che l’insegnante di sostegno la tenesse sempre lontana dalla classe e questa cosa aveva esacerbato la situazione di non legame. A un certo punto dice: “Mi pare importante che io dica a tutti come sto”. È entrata in classe e davanti a tutti ha raccontato la sua vita, del fatto che è nata prematura, di una madre molto ingombrante… “Io sono così per questo motivo. Io sto male quando non sto con voi, voglio stare con voi, ma ho queste fatiche che a volte – lo so – mi rendono antipatica”. Dopo questo monologo improvvisato si sono abbracciati tutti, i compagni piangevano, hanno fatto una festa con le merende. Lei ha ripreso ad andare a scuola, ormai è passato un anno e la situazione sta tenendo. Alla prof ha detto: «È la prima volta in vita mia che appena apro gli occhi non vedo l’ora di essere a scuola». 

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