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Adozione aperta, le quattro chiavi per accompagnarla

Marco Chistolini e Giovanna Beck, psicologi con una lunga esperienza nelle adozioni, curano il libro "Adozione mite, adozione aperta e ricerca delle origini” (FrancoAngeli). Storie e strumenti di lavoro raccolti da chi le adozioni aperte le ha già seguite e ha capito che la "scelta giusta" in astratto non c'è: ogni storia è un caso a sé

di Sara De Carli

Sul treno che sfreccia verso la Sicilia, per le vacanze, ci sono due genitori e tre bambini. Sono tre fratelli, adottati dall’India solo sette mesi prima, Hanno 7, 4 e 3 anni. Si chiamano Suvash, Meera e Parveen. Sul treno che li porta in vacanza, per conoscere i parenti di papà, mentre sfogliano un album di foto, il più grande si sofferma su uno scatto fatto in orfanotrofio. Indica un bambino. «Questo è mio fratello», dice. Enrica e Federico si guardano, più divertiti che stupiti. Pensano a un’amicizia speciale. Ma Suvash insiste e le due sorelline confermano. Suresh è proprio loro fratello. Non c’è lo smartphone. Mamma e papà non vedono l’ora di arrivare a destinazione per poter chiamare il Ciai. Tutti trasecolano. Ma dopo qualche giorno arriva la conferma: c’è un quarto bambino, un quarto fratello, rimasto in India perché non adottabile. Meera nel ricordare oggi quel momento scrive che lui «era troppo grande per essere adottato, era rimasto in India perché le suore avevano deciso così».

Sono passati vent’anni da quel viaggio in treno e oggi la famiglia Asti racconta con serenità quei momenti, in cui la loro giovane famiglia si è trovata catapultata in una dimensione di “adozione aperta ante litteram” che non avevano previsto. Il Ciai riesce a rimettersi in contatto con Suresh, inizia una fitta corrispondenza, quindi degli incontri su Skype. Quando i ragazzi si sentono pronti per un viaggio di ritorno, c’è finalmente la possibilità di rivedersi di persona. Estraneità e fratellanza si mischiano. Distanza e prossimità pure. Enrica si sente in colpa per quel figlio mancato, pensa che si sarà sentito abbandonato due volte. Federico ha paura per un’altra novità imprevista, quando il padre biologico dei ragazzi si fa vivo poco prima del loro viaggio in India: lui ritrova Suresh, i due parlano dei fratelli adottati, il padre chiede di vederli. All’ultimo momento però non si presenta.

Una storia che si dipana negli anni, rispettosa dei tempi e dei modi di ciascuno. Con Suvash che a un certo punto sceglie di non dare una seconda possibilità al padre. Il Ciai c’è sempre stato, in ogni passo.

Questa è una delle storie raccontate nel libro Adozione mite, adozione aperta e ricerca delle origini (FrancoAngeli) a cura di Marco Chistolini e Giovanna Beck, che esce il 12 aprile. Chistolini e Beck hanno una lunga esperienza sul campo, legata in particolare al Ciai. Il volume dà una risposta ai tanti cambiamenti in atto – nella giurisprudenza e nella società – sull’adozione. Lo fa mettendo insieme i contributi di diversi esperti, in diversi ambiti: quelli giuridici, quelli scientifici, quelli psicologici e terapeutici. Lo fa mettendo a servizio una lunga esperienza sul campo, nella ricerca delle origini, nella gestione dei contatti tra fratelli, nel progettare e accompagnare la ripresa dei contatti con la famiglia di origine. Uno dei pregi del volume – come scrive nella prefazione Rosalinda Cassibba – è la capacità degli autori di vedere e mostrare i pro e i contro, le sfaccettature e le complessità della realtà. «Sebbene gli autori non siano contrari al mantenimento dei legami con la famiglia di origine anche qualora il minore venga collocato definitivamente in altro nucleo familiare, ciò che viene costantemente sollecitata è l’attenzione a non confondere l’importanza di tali legami con il loro beneficio, a non dare per assodato che il mantenimento dei rapporti sia sempre (o quasi) un bene e/o una necessità alla crescita del minore».

Ogni caso è diverso. Dobbiamo essere capaci, come operatori, di saper riconoscere e rispettare le opinioni e le emozioni che ciascun individuo esprime, senza applicare chiavi interpretative rigide e stereotipate

Marco Chistolini e Giovanna Beck

Già a luglio 2023, nel commentare la sentenza con cui la Corte Costituzionale ha chiarito che in Italia si possono fare le adozioni aperte e che il minore adottato potrà mantenere rapporti con uno o alcuni componenti della sua famiglia di origine, Marco Chistolini su VITA scriveva così: «Sono favorevole alla possibilità che il minore adottato mantenga la relazione con i familiari di origine e già molti anni fa ho espresso l’auspicio che l’adozione aperta venisse introdotta nella normativa italiana. Ciò che intendo contrastare è la diffusa convinzione che il mantenimento dei rapporti sia sempre, o quasi, un bene e/o una necessità alla crescita del minore. Non è così. Le ricerche indicano chiaramente che seppure mantenere i contatti ha generalmente effetti positivi, può anche avere conseguenze estremamente negative. Dobbiamo stare molto attenti, quindi, a questa imperante mitizzazione del rapporto biologico minore-famiglia di origine che lo fa considerare utile e/o inevitabile, concentrandosi principalmente sui potenziali benefici e trascurandone i possibili effetti dannosi».

Adriano, adottato dal Brasile a 9 anni, oggi racconta che «aver stabilito un rapporto con i membri della mia famiglia biologica ha di fatto cambiato il mio modo di vederli. Fino a quando si trattava di immagini nella mia mente, di ipotesi da me create, di risposte che mi davo autonomamente, avevo una visione molto più “giustificativa” nei loro confronti. Ho sempre cercato di risalire a un motivo oggettivo per cui sono stato allontanato, del perché l’adozione. Tendenzialmente, come dicevo, attribuivo la causa a me stesso, a una mia mancanza, a una mia carenza, alla mia non idoneità. Tuttavia, dopo averli conosciuti e aver passato abbastanza tempo con loro, ho capito che non era cosi, prima di tutto perché un bambino non può essere inidoneo, sono eventualmente i genitori inidonei a tale ruolo. Ancor di più, ho potuto vedere che, al contrario delle mie idee, i problemi erano e sono tuttora in loro. Ho notato grandi lacune, una grande frattura nel loro modo di vivere, nella loro visione del mondo. Ho potuto apprezzare l’adozione e vederla non solo alla luce degli effetti negativi che questa ha comportato, ma anche alla luce di quelli positivi. Potra sembrare banale, ma vedere le cose positive all’interno di un abbandono non è cosi facile».

Il Ciai, fra gli enti autorizzati alle adozioni, è stato fra i primi a promuovere un Gruppo Adottivi Adulti, uno sportello sulle origini e dei viaggi di ritorno alle origini. «L’orientamento che abbiamo consolidato in Ciai – attraverso il confronto, sudi di ricerca e le esperienze fatte – è tendenzialmente aperto e favorevole al mantenimento dei contatti con i familiari di origine. Tale posizione però è strettamente connessa a una valutazione specifica caso per caso e alla condizione che sia attivata un’adeguata preparazione. Questo significa aprire con la famiglia adottiva spazi di condivisione sui pensieri e sui vissuti di ciascuno», scrivono ora Chistolini e Beck. Un grande lavoro di ascolto e confronto: «Ogni caso è diverso. Dobbiamo essere capaci, come operatori, di saper riconoscere e rispettare le opinioni e le emozioni che ciascun individuo esprime, senza applicare chiavi interpretative rigide e stereotipate. Accompagnare le persone adottate, i genitori adottivi e i familiari biologici a precorrere e gestire la strada dell’apertura rappresenta un compito affascinante e complesso». Un percorso a cui servono quattro caratteristiche: competenza, dedizione, umiltà e passione. Quelle che dal libro di Chistolini e Beck traspaiono tutte.

Foto da Pexels


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