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Afghanistan, la cancellazione delle donne

Mentre il Paese muore di fame, i “dottori” della Sharia discettano su quanto debbano essere informi gli abiti delle donne, hanno paura del loro corpo ma, prima ancora, della loro testa. Il processo di cancellazione del genere femminile - 18 milioni di persone- va avanti inesorabile nell’indifferenza generale

di Anna Migotto e Sabina Fedeli

Che sia una donna lo si capisce solo dalle mani, dalle unghie ben curate, dai polsi sottili. Tutto il resto è una macchia nera a forma di corpo, un corpo seduto alla scrivania, la testa accasciata sul petto a nascondere anche l’unico pezzo di viso che ancora poteva mostrare: gli occhi. L’immagine è stata scattata alla fine di maggio mentre Khatera Ahmadi, giornalista afgana sta facendo il suo lavoro. Racchiude tutta la stanchezza e lo scoramento della conduttrice di Tolo Tv che come tutte le sue colleghe è stata costretta, dalle ultime imposizione dei talebani, ad andare in onda con il volto coperto. Questa foto, che ha fatto il giro del mondo, è diventata il simbolo dell’oppressione di tutte le afgane. Ha commosso, indignato, fatto spendere parole di riprovazione e di solidarietà. E come tutto ciò che riguarda l’Afganistan è stata velocemente dimenticata.

La stessa sorte toccata ai filmati di agosto, con la gente morta mentre tentava di fuggire da Kabul appesa alle ali degli aerei, ai quattordicimila bambini falciati dalla malnutrizione nei primi quattro mesi dell’anno o a quelli venduti dalla famiglia pur di far sopravvivere gli altri figli.

Intanto, mentre il Paese muore di fame, i ‘dottori’ della Sharia discettano su quanto debbano essere informi gli abiti per celare i punti più seducenti, su quanto la stoffa debba essere pesante per non rivelare le forme e non indurre in tentazione l’uomo. Dettagli da “sarti” della decenza, sotto cui si cela la paura del corpo delle donne ma, prima ancora, della loro testa.

“Ci spingono verso l’invisibilità perché sono terrorizzati dalle donne consapevoli, istruite, capaci di scegliere il loro destino”, spiega Sahraa Karimi, regista ed ex direttrice dell’Afghan Film organization, che si è rifugiata in Italia e ora insegna alla Scuola nazionale di Cinema di Roma. Sahraa sa che l’impegno per i diritti è una battaglia ancora di poche, promossa nelle grandi città, da intellettuali, scrittrici, attiviste. Sa che il patriarcato ha sempre dettato legge nelle campagne ma che i passi avanti compiuti nel campo dell’educazione e dell’emancipazione femminile, negli ultimi vent’anni, erano stati l’unico vero successo della presenza occidentale.

Figlia di quelle conquiste è la tenacia di Lamar Zala, giovane studentessa e attivista di Kabul. “Nonostante i problemi di sicurezza, la depressione, l’ansia, le restrizioni della nostra società tra qualche giorno mi diplomerò e inizierò un nuovo viaggio di studio all’università americana di Kabul. Proprio perché istituzione americana io sono entrata un po' nel mirino del governo. La sola ragione del mio successo è stata la resistenza e la pazienza.”

Lamar ha potuto farcela studiando online, quando c’era elettricità e connessione. Milioni di ragazze, meno fortunate di lei, non hanno avuto questa opportunità e le porte delle scuole per le adolescenti sopra i 12 anni, nonostante le promesse e i proclami, sono rimaste vergognosamente sbarrate.

La stessa determinazione la dimostrata Khatera Ahmadi che pur di continuare a dare voce alle donne è anche disposta ad andare in onda come una macchia nera di cui si vedono solo occhi e mani.

Lei è una delle cento giornaliste sopravvissute alla mannaia del regime tornato al potere il 15 agosto 2021. Prima le reporter in Afghanistan erano almeno settecento. Ma quale sarà il prossimo giro di vite di un regime che piega le leggi dell’Islam alla sua visione oscurantista?

Il timore è di venire estromesse per sempre e ovunque dalla scena pubblica.

“Quello che sta accadendo potrebbe non essere ancora il peggio”, dice Lamar e aggiunge: “È chiaro che quando ci sono nuove emergenze, come il conflitto in Ucraina, i riflettori illuminino quelle, però noi ci sentiamo sempre più sole e abbandonate.”

“Siamo nate nella guerra, siamo vissute nella guerra e spesso siamo state costrette a scappare a causa della guerra. Siamo una generazione perduta” sostiene Roya Heydari fotografa e filmaker rifugiata in Francia. Le afgane insomma conoscono il dolore e lo strazio che stanno provando oggi in Ucraina ma chiedono di non essere dimenticate.

Rischiando la vita, a manifestare nelle strade della capitale per tenere viva l’attenzione della comunità internazionale, sono rimasti ormai solo sparuti gruppi di coraggiosissime donne supportate da qualche valorosa Ong.

Mentre il processo di cancellazione del genere femminile – 18 milioni di persone- va avanti inesorabile nell’indifferenza generale.

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*Anna Migotto, nata in Friuli, è giornalista e film-maker. Inviata speciale per Mediaset, è esperta di esteri e Medio Oriente. Per Einaudi ha pubblicato, con Stefania Miretti, Non aspettarmi vivo (2017).

Sabina Fedeli sino al 2015 è stata a Mediaset in qualità di inviato, ha coperto eventi di cronaca nazionale e internazionale con servizi per i telegiornali del gruppo e reportage: la guerra nella ex Jugoslavia, la crisi israelo-palestinese, Il golpe a Mosca, la crisi algerina degli anni 90, le rivoluzioni in nord Africa

Anna Migotto e Sabina Fedeli, hanno vinto il premio della critica al Premio Ilaria Alpi del 2011 per Le perseguitate, reportage fatto per “Terra”, sono autrici di #AnneFrank. Vite parallele (2019) e Noi donne afghane (2021)

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