Disabilità
Amministrazione di sostegno, quell’ «interdizione mascherata» che il Terzo settore può sanare
Negli oltre vent'anni trascorsi dalla sua nascita, l'istituto ha perso la sua natura originaria a garanzia dell'autodeterminazione della persona, per diventare una mera difesa del patrimonio. Per Vincenzo Falabella, consigliere del Cnel, recuperare il senso originario della figura dell'amministratore è possibile grazie al non profit

«Un’interdizione mascherata». È questo quello che rischia di diventare l’amministrazione di sostegno secondo Vincenzo Falabella, consigliere del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro – Cnel di cui coordina l’Osservatorio inclusione e disabilità e presidente Fish. Eppure, alla sua nascita, nel 2004, questo istituto avrebbe dovuto segnare una svolta epocale nel modo di concepire la protezione giuridica di chi ha una disabilità. Secondo l’articolo 408 del Codice civile, l’amministratore sarebbe tenuto ad agire «nel rispetto della volontà della persona». Nella realtà, però, i tribunali finiscono per concentrarsi sulla protezione del patrimonio, tralasciando il nodo centrale dell’autodeterminazione e provocando una deriva che ci riporta indietro di più di vent’anni. Ma come fare per rimettere al centro la persona? Un ruolo determinante, in questo senso, può essere svolto dal Terzo settore, struttura portante della rete sociale e solidale del nostro Paese. Proprio di questo si è parlato oggi al convegno Amministrazione di sostegno e Terzo Settore, sinergie per un sistema integrato di protezione giuridica e sociale, organizzato a Roma dalla Fondazione Terzjus, insieme al Cnel.
Falabella, quali sono i limiti della figura dell’amministratore di sostegno?
L’istituto dell’amministratore di sostegno, che è stato costruito per superare l’interdizione, non ha rispettato questo scopo nel corso degli anni. Era nato per tutelare soprattutto la persona e non il patrimonio, come accade invece con altri istituti giuridici di protezione previsti dal nostro codice civile, ma nella maggior parte dei casi non è più così. Sono addirittura accaduti dei casi-limite, denunciati anche dal programma Le iene.
Per esempio?
Quello di Carlo, un uomo con disabilità fisica ma capace di intendere e di volere, a cui è stato imposto un amministratore di sostegno, che l’ha privato della libertà di gestire i propri soldi e di decidere la sua vita. O quello di Simona, una donna autosufficiente che non ha potuto scegliere nemmeno con chi vivere e con chi relazionarsi. In questi casi, gli amministratori si sono resi responsabili di una grave violazione, dimenticando di essere esecutori materiali del volere degli amministrati. Nel 65% dei casi – secondo gli ultimi dati del ministero della Giustizia – l’amministrazione di sostegno viene utilizzata principalmente come strumento di gestione patrimoniale.
Secondo lei, perché accade che venga travisato il ruolo dell’amministratore di sostegno? Si tratta di cattiva volontà o di un errore di interpretazione fatto in buona fede?
Un elemento da valutare in primis è la volontà dei giudici; questi ultimi, spesso, per il carico di lavoro rischiano di diventare dei veri e propri burocrati. E sappiamo bene che quando interviene la burocrazia standardizzata si perdono di vista quei valori che danno dignità alle persone. L’altra questione è l’ampio potere concesso agli amministratori di sostegno, che li porta spesso a surrogarsi alla volontà dell’amministrato; in questi casi l’amministrazione di sostegno diventa una vera e propria “interdizione mascherata”. Tra l’altro, queste figure molte volte dimenticano che la loro funzione primaria è garantire la persona, prima del patrimonio.
Chi svolge ora il ruolo di amministratore di sostegno?
Di solito sono dei professionisti; a volte sono familiari, ma in questo caso rischiano di essere attanagliati da una burocrazia rendicontativa che diventa di difficile gestione. Una famiglia al cui interno vive una persona con disabilità è già appesantita in molti modi. Se poi viene detto al genitore – magari anziano – che deve anche rendicontare diventa difficile. Peraltro alcuni tribunali richiedono la certificazione da parte di un organismo di controllo, dei commercialisti che devono apporre “il sigillo di qualità”. I costi di questo professionista ricadono non sull’amministratore, ma sull’amministrato, che di solito ha un aggravio dei costi. Abbiamo creato un istituto flessibile, che però nell’applicazione concreta si è rivelato molto limitativo e standardizzato.
E chi ne paga le conseguenze?
Gli amministrati, che si vedono privati di un loro sacrosanto diritto: vivere liberamente e poter scegliere liberamente come organizzare la propria quotidianità.
Come ovviare a queste criticità, restituendo a questo istituto il suo scopo originario?
La sentenza della Corte costituzionale numero 131 del 2000 in un passaggio afferma che gli enti del Terzo settore, in quanto rappresentativi della società solidale del nostro Paese, spesso costruiscono sul territorio una rete capillare di vicinanza. Allora, queste realtà potrebbero essere strumenti di affiancamento – non sostitutivi dell’amministratore o dell’amministrato – per garantire che vengano rispettate le finalità dell’istituto e le esigenze dei cittadini che lo vedono applicato nella propria quotidianità. Potrebbero svolgere il ruolo di amministratore di sostegno laddove la figura venga a mancare. Hanno competenze tecniche multidisciplinari, sono neutrali e quindi riescono a trovare delle mediazioni tra il magistrato, a cui deve essere rivolta tutta una serie di documentazioni, e la persona amministrata. Gli enti del Terzo settore hanno stabilità organizzativa, procedure chiare e trasparenti. In più, hanno un approccio basato sui diritti umani, non sulla mera gestione patrimoniale.
Foto in apertura di Truthseeker08 da Pixabay
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