Cultura
Amos Oz ci prestail suo sguardo
«La vita fa rima con la morte» dello scrittore israeliano
di Redazione

Uno scrittore che si guarda come in un film. È questa la traccia dell’ultimo libro, agile e fulminante come ormai ci ha abituati, di Amos Oz. La trama è la nascita di una trama. Non è un paradosso: lo scrittore scruta nel quotidiano, aggancia particolari che all’occhio normale dicono poco. Soprattutto ha la grande capacità di assegnare nomi a quei particolari, che sono poi dei volti, delle biografie appena pizzicate con uno sguardo. Uno scrittore è soprattutto questo. È capacità di dare un nome, di calare su un’immagine intercettata i suoi connotati. Che sono ovviamente fantasiosi, ma hanno la forza potente dell’assoluta verosimiglianza.
Lo scrittore inizia il libro seduto in un bar, aspettando l’ora di una conferenza a cui è chiamato a partecipare per presentare un suo libro. Arriverà con un po’ di ritardo come ogni star. E tutto si svolge secondo un copione che non prevede colpi di scena. Ma mentre sembra che nulla accada, lui sta saccheggaindo i volti che ha di fronte. Racconta: «È un po’ come se questo scrittore li stesse borseggiando mentre loro sono immersi nei meandri della sua opera, sotto la guida dell’esperto di letteratura».
Oz conduce il gioco con grande leggerezza, senza retorica. Legge negli occhi di chi davanti alle domande, anche banali, che ne occupano la mente («Perché scrivi? Per chi? E qual è il tuo messaggio, sempre che tu ne abbia uno?»). Ma poi non si ferma sulla soglia. Entra in quei tipi umani, li assedia con il suo sguardo curioso. Alla fine scopri che il motore di uno scrittore è il fascino per ciò che ha davanti. Il fascino di avventure umane, la cui semplicità non attenua il mistero.
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