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Antiterrorismo e aiuti umanitari, un equilibrio impossibile?
Intervista a Sara Pantuliano, direttrice dell'Humanitarian Policy Group, istituto di ricerca inglese legato al think tank Overseas Development Institute: «Le norme prevedono che un'ong negozi con le parti in guerra per consegnare gli aiuti. Se però una delle due parti definita come terrorista...
Numeri impressionanti di feriti, sfollati, rifugiati e, purtroppo, centinaia di migliaia di morti. In Siria, Iraq, Afghanistan, Sud Sudan e Repubblica Centro Africana sono in corso alcune delle emergenze umanitarie più gravi degli ultimi cinquant'anni. Consegnare gli aiuti umanitari è però sempre più difficile. La colpa non è solo delle violenze di gruppi armati, da Isis alle milizie Séléka, ma anche delle norme antiterrorismo adottate dopo l'11 settembre. Un effetto collaterale complesso da spiegare – racconta Sara Pantuliano, direttrice dell'Humanitarian Policy Group, istituto di ricerca inglese legato al think tank Overseas Development Institute. Ma che rischia di tagliare fuori dagli aiuti chi ne ha più bisogno.
Iniziamo dall'attualità stretta. Il così detto Stato Islamico occupa territori estesi. Ma è possibile far arrivare aiuti umanitari in zone controllate da gruppi non statali, come Isis?
Il dilemma è vecchio quanto gli aiuti umanitari. Quello che sta succedendo con Isis è infatti già avvenuto in passato in Cambogia, in Biafra e in altri conflitti. In zone di guerra, dove i belligeranti hanno motivi politici e economici che possono compromettere un uso corretto degli aiuti, è sempre stato difficile verificare che arrivino ai destinatari. Le organizzazioni serie però fanno di tutto per garantire che questo avvenga. Ci sono procedure complesse, che prevedono negoziati strutturati con le parti del conflitto e controlli durante e dopo la consegna degli aiuti. Detto questo, il rischio si può minimizzare ma non eliminare del tutto.
La storia recente ha insegnato qualcosa?
Le crisi prolungate nel Corno d'Africa sono state sicuramente un grande tirocinio formativo per gli operatori umanitari. Pensiamo alle guerre in Eritrea e in Somalia. In Sudan, ad esempio, gli aiuti sono stati usati per moltissimo tempo dai guerriglieri dello SPLA, la milizia indipendentista sud sudanese. Anche l’Afghanistan della “guerra al terrore” ha insegnato molto agli operatori umanitari.
Proprio qui c’è un aspetto critico: è legittimo, per far arrivare gli aiuti, negoziare con Isis o comunque con chi è accusato dalle stesse Nazioni Unite di terrorismo?
E' un nodo centrale. Le norme sugli aiuti umanitari prevedono che un'organizzazione negozi con le parti in guerra per far arrivare alla popolazione i beni di cui ha bisogno. Se però una delle due parti è rimossa da questo negoziato, in quanto definita come terrorista, diventa estremamente difficile trovare un accordo. La legislazione antiterrorismo fa proprio questo: criminalizza uno dei soggetti del conflitto, escludendolo dai negoziati. Così viene meno la neutralità, cardine del lavoro umanitario: come Ong vieni percepito come compromesso con la parte “buona” della guerra. Oppure, se entri in contatto con qualcuno che è sospettato di terrorismo, per far arrivare gli aiuti, le legislazioni ti additano automaticamente come fiancheggiatore dei “cattivi”. La legislazione umanitaria entra quindi in collisione con le norme antiterrorismo.
Cosa succede nel concreto?
Come operatore umanitario, in aree vaste come l’Irak, non sai sempre che legami ha chi ti sta di fronte, ma il tuo mandato ti chiede di trattare con lui, per negoziare il passaggio di aiuti in un territorio. Se però un nome è nelle "black list" dei gruppi terroristici e di chi li supporta, previste dall'ONU e da molti stati, si rischia di essere accusati di "supporto materiale al terrorismo". Al Shaabab o Isis, per esempio, sono denominazioni vaste, che comprendono gruppi diversi, fazioni, singole persone, con rapporti complessi fra loro. A congelare la volontà di operare in certe zone e con alcuni gruppi, rischiando di trovarsi sul banco degli imputati, è soprattutto la legislazione statunitense, in cui è facile entrare nelle liste, ma quasi impossibile uscirne.
Sarebbe auspicabile considerare clausole di esenzione da queste accuse per chi consegna aiuti umanitari?
Certo. Chiaramente le organizzazioni devono avere procedure che garantiscano che gli aiuti non vadano in mani sbagliate. E con mani sbagliate si intende non solo i terroristi, ma in generale che non ci sia rischio di frodi, corruzione. In Gran Bretagna per esempio c'è un'influenza della legislazione Usa, molto rigida, ma è anche vero che giovani Ong, nate dalla diaspora di comunità straniere, non fanno sempre controlli adeguati. Poi c'è un problema di percezione: se non puoi trattare con presunti terroristi, sei additato come soggetto della "cospirazione occidentale", che usa l'antiterrorismo per manipolare l'opinione pubblica e dividere fra buoni e cattivi. Così non sei più percepito come indipendente, ma diventi una sorta di agente dell'Occidente.
Operare in questi territori significa anche, troppo spesso, rischiare la vita… l’antiterrorismo mette più a rischio gli operatori umanitari?
Il problema della sicurezza c'è sempre stato, ma ultimamente è diventato molto più acuto. A fare notizia sono spesso le vicende degli operatori occidentali espatriati, mentre nella realtà a risentire di più della situazione sono gli operatori del posto. La maggior parte dei colleghi assassinati, rapiti, feriti in questi paesi lavorano per organizzazioni occidentali o per i loro partner locali e sono sempre sulla linea del fronte nella consegna degli aiuti. C'è spesso la presunzione che il personale locale sia meno esposto, ma talvolta è vero il contrario: motivi politici, di religione o appartenenza a certi gruppi, piuttosto che il fatto stesso di lavorare con un’organizzazione percepita come “agente occidentale”, possono mettere in pericolo i locali più degli espatriati. Il grosso problema è poi che non solo i belligeranti, ma anche le comunità locali non ti percepiscono più come neutrale e quindi non ti accettano e difendono in casi di pericolo. Anche perché per ottemperare alle norme antiterrorismo bisogna sottoporre i partner del posto, associazioni e singoli individui, a interrogativi minuziosi, con il rischio di essere percepiti come spie, per poi verificare su un database internazionale ogni contatto. A quel punto se il nome di un beneficiario è su una lista nera, non puoi erogare l'aiuto. Ci sono stati però casi di Ong islamiche che hanno nomi uguali, ma magari una è dello Yemen e l'altra pakistana e non hanno alcun rapporto fra loro.
L'antiterrorismo rischia di far crescere i costi degli aiuti e di rallentarli?
Certo, compromette totalmente la tua possibilità di venire accettato, implica tempi più lunghi per la consegna di beni di prima necessità e un peso amministrativo incredibile. Per seguire le linee dell'antiterrorismo, le Ong devono assumere consulenti legali e esperti di terrorismo, con costi enormi. Anche perché al minimo rischio le banche chiudono i conti, per non essere esse stesse tacciate di supporto al terrorismo. Anche se io ho fondi di Echo (l'ufficio della UE per gli aiuti umanitari, ndr) e mando qualcosa a un'organizzazione in Pakistan, come durante le alluvioni del 2012, possono bloccarmi tutti i conti sulla base di un semplice sospetto. In Inghilterra ad esempio, le banche lo fanno con facilità, anche perché non hanno molto interesse a tutelare un settore, come il no profit, che rende poco. E il problema più grave è che, come avvenuto per la carestia in Somalia, i convogli umanitari arrivano tardissimo, con conseguenze drammatiche per le popolazioni colpite.
Si sono dunque create zone off-limits per gli aiuti?
La Siria è l’esempio più drammatico degli effetti perversi di questa legislazione, che fa si che arrivino più aiuti in zone dove c'è meno bisogno, o per lo meno dove il bisogno non è così immediato. A orientare gli aiuti non sono i bisogni, ma i minori rischi. Anche le organizzazioni più esperte oggi ci pensano bene prima di andare in zone dove si rischia di essere criminalizzati in virtù del "supporto materiale al terrorismo” previsto da Washington. Essendo una legislazione extraterritoriale, se passi per gli Usa possono arrestarti se sospettato di aver dato questo supporto, che include anche formazione sulle norme umanitarie e aiuti medici, per cui puoi dare farmaci ma non assistenza o spiegazione su come usarli. Tutto è criminalizzato.
Accanto alla black list delle Nazioni Unite ci sono quelle nazionali, che riflettono la politica estera di un paese, questo è un problema?
Le liste sono assolutamente arbitrarie e vengono usate da alcuni governi di paesi in conflitto per criminalizzare gli oppositori, quelli che una volta – almeno in alcuni casi – erano definiti come movimenti di liberazione. Inevitabilmente, quindi, riflettono gli orientamenti politici dei singoli paesi.
Come fanno le organizzazioni a mantenere il proprio mandato in contesti come quello siriano, o quello libico, in cui le parti in guerra sono diverse e confuse fra loro?
Il mandato si scontra con le norme antiterrorismo, che paradossalmente, hanno reso il sistema molto meno trasparente. Per esempio nel caso di Gaza le organizzazioni non facevano più le relazioni sui meeting, perché nessuno poteva scrivere che aveva incontrato Hamas. Ma come fai a lavorare in un posto se non puoi parlare con l'autorità locale? Anche i donatori sono diventati più diffidenti. Basti pensare che, dopo alcuni casi di arresti del personale di fondazioni caritatevoli, le comunità musulmane, che sono fra i principali donatori privati nel mondo, per paura di dare soldi in mani sbagliate hanno iniziato a mandare contanti. Durante la carestia somala, come per l'alluvione in Pakistan, sono arrivate valige di banconote e quelle, chiaramente, non sono monitorabili.
Concludiamo sull’Italia. Lo scorso febbraio ha incontrato il viceministro agli Esteri Pistelli. Il nostro paese interviene ancora poco nelle emergenze umanitarie, che prospettive vede?
Il panorama della cooperazione italiana lascia molto a desiderare, o per lo meno deve crescere molto, salvo poche eccezioni. Credo però che la nuova legge offra delle buone prospettive. In generale direi che c’è assolutamente bisogno di professionalizzarsi e di superare un'idea di aiuto caritatevole ancora molto diffusa.
DA MSF A ISLAMIC RELIEF, AIUTI IN PERICOLO
Il 28 settembre 2001 il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite emana la risoluzione 1373, che criminalizza qualsiasi atto di supporto, diretto o indiretto, al terrorismo. Già nel 1999 era stata creata una “lista nera”, con l’obiettivo di colpire i sostenitori di Al Qaeda, estesa dal 2014 a tutte le organizzazioni derivate dal gruppo di Osama Bin Laden. Usa, Unione Europea, Canada, Israele e altri stati hanno adottato liste interne, prevedendo sanzioni, blocco dei fondi e altre misure. A finire però nella morsa dell’antiterrorismo, oltre – fortunatamente – a centinaia di membri di organizzazioni criminali, sono state anche note Ong. Interpal, un’associazione che lavora in Palestina ma ha sede nel Regno Unito, è stata accusata dal dipartimento di stato USA di supportare Hamas, fatto poi smentito dal governo britannico. Simile la vicenda di Islamic Relief Worldwide, la più grande charity musulmana, attiva in numerose emergenze umanitarie, illegale per Israele e Emirati Arabi ma riconosciuta in molti altri paesi. Nel dicembre 2014 il governo kenyano ha chiesto anche a Concern Worldwide e a Medici Senza Frontiere di sottomettere un rapporto per evitare di incorrere nelle sanzioni della nuova legge sulle Ong, presentata dal governo come uno strumento di lotta al terrorismo ma accusata da Amnesty International di reprimere le organizzazioni indipendenti. Sempre più paesi, dalla Russia al Venezuela, passando per Egitto e Sudan, prevedono poi sanzioni per Ong locali che ricevono fondi dall’estero.
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