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Assistente alla maternità, la nuova figura che dimentica i papà

Fa discutere l'idea del Governo di prevedere un'assistente alla maternità che entri nelle case delle neo-famiglie, per accompagnarle. La proposta risponde a un bisogno reale, a patto che non sia l'ennesima figura solo sanitaria. Qui quattro correttivi

di Francesca Gennai* e Silvia Devogli*

È notizia di qualche giorno fa che il governo Meloni è pronto a stanziare fondi significativi, tra i 100 e i 150 milioni di euro, per introdurre a partire dal prossimo anno la figura dell’assistente alla maternità. La proposta sta suscitando un grande interesse. Da un lato ha fatto venire un bel po’ di mal di pancia ad alcuni ordini professionali, rendendo così palese la ancora troppo diffusa convinzione che la maternità debba trovare la sua “presa in carico” solo nel sistema sanitario, ma senza dubbio l’iniziativa centra in pieno un bisogno finora inascoltato. 

Come avevano da tempo previsto gli osservatori sociali, oggi, le nuove famiglie navigano in acque sconosciute: spesso non dispongono di una rete familiare di supporto e si trovano privi di modelli educativi e di cura. Sono inoltre aumentati i fattori di rischio connessi alla genitorialità (livello socio-economico o di istruzione basso, fragilità psichica, giovanissima età, madri sole) che spesso si combinano, richiedendo più tempo e maggiori competenze ai servizi, per arginarne le influenze negative sui percorsi di crescita dei figli. È diventato perciò cruciale garantire alle famiglie la possibilità di avere il supporto di professionisti all’interno della dimensione domestica, con interventi mirati. Se tutto questo conferma la scelta del Governo, vero è che l’introduzione di questo nuovo supporto professionale deve essere accompagnato da alcune attenzioni fondamentali. Quali?

La prima è che si dovrebbe parlare di supporto alla genitorialità e non alla maternità; i nomi definiscono e in questo caso escludono la figura paterna non riconoscendone implicitamente l’importanza fin dai primi mesi di vita o, ed è ancor peggio, non contemplando che anche gli uomini possano aver bisogno di sostegno professionale nell’esercizio del loro ruolo.

La seconda attenzione riguarda l’inquadramento della figura dell’assistente come punto di riferimento non solo per gli aspetti di cura (banalizzando, per far passare il singhiozzo), ma soprattutto come promotrice di quello che Bowlby ha definito un “attaccamento sicuro”. Dovrebbe essere in grado di fornire ai neo genitori la mappa dei servizi culturali, educativi, sociali e sanitari territoriali e promuovere occasioni di socializzazione, per evitare qualsiasi forma di isolamento. L’attivazione della rete sociale intorno alla famiglia, che richiede un notevole investimento, è un elemento indispensabile per l’esito positivo e per superare o ridurre le situazioni di difficoltà e disagio.

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Il terzo elemento riguarda la volontà da parte del Governo di creare, pare, ex novo questa nuova figura professionale. Forse dobbiamo cambiare approccio e partire da quali funzioni dovrebbe svolgere e quindi di quali competenze sono necessarie per svolgerle, analizzare se esistono già tali competenze ed avviare seri percorsi di certificazione che avrebbero il vantaggio di valorizzare figure professionali già esistenti allineando la loro professionalità ai nuovi bisogni emergenti. Si tratta di un modo di procedere che gioverebbe al nostro sistema di welfare, che fatica a tenere oggi in termini di sostenibilità ed è già troppo appesantito da burocrazia, procedure, accreditamenti e richieste di requisiti professionali. 

Un quarto elemento di attenzione investe il quadro in cui questa figura va inserita: il supporto alla genitorialità non va incentrato esclusivamente su una figura professionale, ma deve essere costruito come un impegno multidisciplinare che coinvolge educatori, pediatri, ostetriche, psicologi. Solo così lo sguardo sulla genitorialità (e sul bambino) è effettivamente plurimo, come la sua complessità richiede. 

Complesso sì, impossibile no. Lo dimostra il progetto “Scommettiamo sui giovani” che in Trentino, partendo da una ricerca dell’Università, ha portato alla costruzione di un servizio condiviso tra sistema sanitario (azienda sanitaria, consultori) e cooperazione sociale in uno “sconfinamento creativo” che consente ad educatrici ed ostetriche di adattarsi alle caratteristiche e ai diversi bisogni di ogni sistema familiare.

*Silvia Devogli, consorzio Con.solida; Francesca Gennai, cooperativa sociale La coccinella

Foto di Andriyko Podilnyk su Unsplash


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