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Il caso

Auto diverse e strade nuove per salvare ciclisti e pedoni

Dopo l'ennesima vittima della strada - un 18enne canadese ucciso da macchina su un marciapiede di Milano - urge un nuovo approccio alla mobilità. Ne abbiamo parlato con Stefano Guarnieri che, dopo la morte del figlio Lorenzo, investito da un uomo ubriaco e drogato, ha fondato un'associazione per la sicurezza stradale

di Alessio Nisi

strada

Karl aveva 18 anni, una vita davanti, due passaporti: un giorno di agosto è finito in una carambola tra automobili di grossa taglia in una strada di Milano e, dopo 24 ore di agonia, è morto al Niguarda. Sul marciapiedi su cui passeggiava insieme a mamma e papà, sono rimasti due genitori sotto choc, che passeranno il resto della vita a chiedersi, perché. Ce lo siamo chiesti anche quando abbiamo pianto Francesco Valdiserri e ci siamo stretti attorno alla famiglia. Mai più. Lo avevamo detto anche quando abbiamo sgranato gli occhi sul caso del piccolo Manuel e di quello del bambino di 12 anni che ha perso la vita sulle strisce pedonali a Ladispoli, vicino Roma. Prima lo choc e il cordoglio, poi proviamo a cambiare le cose: facciamo più educazione stradale? Sì la facciamo, poca ma si fa. Facciamo più controlli. Togliamo più punti alla patente.

Eppure la rotta non si inverte

Già, cos’è allora che rimane costante, dov’è il corto circuito? Forse è proprio in quelle automobili, sempre più grandi e veloci, con accelerazioni quasi “missilistiche”, circondate da una narrazione che incita all’aggressività, a spingere sul pedale in scenari in cui l’automobilista è chiuso nel suo abitacolo, in città spesso vuote e senza pedoni: un approccio irreale e predatorio quasi che pesa come un macigno sulle buone pratiche, sulle belle intenzioni, sulle multe più salate, sulle patenti ritirate. Ecco perché il lavoro che fa chi va nelle scuole e fa cultura della strada non solo non è accessorio, né è complementare alle misure repressive, ma è essenziale. Perché se convinci un futuro adulto che un certo comportamento stradale è tossico (proprio come le sigarette) e contrario a ogni etica, domani sceglierà un’automobile non in base a istinti aggressivi o predatori e la prudenza sarà una scelta giusta, approvata, socialmente allineata, o magari non sceglierà proprio questo mezzo.

Impegnati per un cambio culturale

Fra le persone che sono impegnate in questa direzione c’è, suo malgrado, anche Stefano Guarnieri, il papà di Lorenzo. Ha perso il figlio nel 2010: Lorenzo aveva 17 anni. La notte del 2 giugno 2010, a Firenze, fu investito e ucciso da un uomo che guidava ubriaco e drogato. Da allora ha cercato di salvare più vite possibili sulle strade. Ha creato un’associazione, organizzato una campagna di sensibilizzazione nelle scuole e nelle università: il suo impegno è stato poi determinante perché il Parlamento approvasse la legge sull’omicidio stradale.

Stefano Guarnieri, fondatore dell’associazione Lorenzo Guarnieri

Guarnieri, Karl purtroppo non ce l’ha fatta.

Il primo pensiero è andato al dolore della famiglia, che ha perso un figlio in una maniera improvvisa, violenta e certamente evitabile. Le cause purtroppo sono sempre le stesse: la velocità eccessiva, non quei 30 chilometri all’ora a cui sarebbe giusto andare secondo noi, e un mezzo di cui si perde il controllo.

Parlare di fatalità lascia sempre un po’ perplessi.

Anche perché i numeri sono pesanti. Dal primo al 30 luglio Italia secondo i dati sono morti 227 pedoni, gente ammazzata mentre compie attività assolutamente priva di rischi.

Le cause di questa strage, secondo lei.

Sicuramente ci sono i comportamenti sbagliati alla guida. Quasi sempre legati alla velocità, alla distrazione e all’ottundimento legato all’assunzione di sostanze come alcol e droghe.

Parliamo dell’auto che ha ucciso il ragazzo.

Un mezzo di grandi prestazioni. Parliamo di veicoli che possono arrivare a pesare anche 2 tonnellate. È chiaro che in ambito urbano se un’auto di questo tipo perde il controllo può uccidere facilmente.

Quali strumenti abbiamo per invertire la rotta?

Sono per l’approccio anglosassone: quello delle tre “e”. La prima è l’education. Dobbiamo fare in modo la formazione in termini di educazione stradale sia al centro. Partire dalla scuola fin da piccoli è determinante. La seconda è l’enforcement, che comprende non solo le leggi ma anche come riusciamo a farle rispettare. Dobbiamo fare in modo che in città di riduca la velocità e intensificare i controlli.

Lei propone il limite dei 30 chilometri l’ora.

In gran parte delle capitali europee sono questi i limiti.

La terza “e”?

Riguarda l’engineering, aspetto che tocca sia le tecnologie, sia le infrastrutture. Dobbiamo fare in modo che le strade siano progettate il più possibile per la protezione degli utenti vulnerabili. Penso anche alla riduzione della velocità delle auto attraverso una riduzione fisica delle corsie. Soprattutto in città, dove c’è un traffico misto, dobbiamo difendere i più deboli: pedoni e bici.

Le automobili e la narrazione che se ne dà sembrano andare però in un’altra direzione. Le aziende hanno una responsabilità in questo contesto?

Media e pubblicità utilizzano una terminologia che tende a deresponsabilizzare quello che succede sulla strada: penso a espressioni come “strada killer”, “auto pirata”, “auto impazzite”. E gli umani? La pubblicità esalta e premia poi la guida sportiva. Questo genere di pubblicità, aggiungo, in Italia non è regolata: possono dire quello che vogliono. Tutto questo si combatte con l’educazione, la formazione. Ci vuole un cambio culturale verso una mobilità più “dolce”, cosa che è già avvenuto in Nord Europa.

Ha dati aggiornati?

In Italia gli ultimi numeri ci danno in diciannovesima posizione per numero di morti sulla strada in Europa.

La foto di apertura è di Ian Valerio per Unsplash. Nel testo un’immagine di Stefano Guarnieri, fornita dall’autore


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