Come spesso succede, l’omicidio di Sarah si è ben presto trasformato in un osceno circo mediatico, dove ognuno ha dato il peggio di sé. Con la scusa di aiutare il pubblico a capire, con la suprema ipocrisia di non ammettere che di fronte a una storia simile la morbosità fa premio sulla reticenza, giornalisti e telecamere si sono accampati da settimane ad Avetrana.
Da quella sera in cui mamma Concetta ha appreso in diretta la tragica fine della figlia, i media hanno continuato a illuminare la scena del delitto e il retroscena famigliare, essendo ormai caduta la distinzione che separa la vita reale da quella rappresentata. I verbali sono stati ritrasmessi decine di volte con o senza l’ausilio di attori. Una volta di più, e in una misura che mi pare senza precedenti, è stato spazzato via ciò che restava delle barriere di pudore e di pietà travolte da un famelico voyeurismo e dalla speculazione dell’audience.
«Chi l’ha visto?», «Il salotto» di Barbara D’Urso, «La vita in diretta», «Porta a porta», «Matrix», telegiornali e giornali, radio e riviste, tutti si sono buttati a capofitto. Qualcuno ha parlato di sovraesposizione barbarica. Come ha scritto Aldo Grasso: «Forse dovremmo avere il coraggio di ammettere che i meno colpevoli sono proprio i protagonisti di questa brutta storia. La madre si è aggrappata a “Chi l’ha visto?” con la forza della disperazione che si può avere in casi simili, riconoscendo alla tv un ruolo determinante per trovare aiuto. Forse la cugina, il fratello di Sarah, Sarah stessa era una vita che sognavano di andare in tv, non avendo strumenti culturali di difesa, avendo anzi assorbito per anni gli stili di vita che certa tv offre quotidianamente. E adesso sono in molti ad approfittare di questa loro debolezza. Siccome siamo capaci di fare il callo anche all’orrore, ogni giorno qualcuno decide di alzare la posta in gioco e quello che fino a un attimo prima sembrava un tabù, d’improvviso si trasforma in consuetudine».
Forse, è una notazione del critico del Corriere della sera che mi ha fatto molto pensare: «Il punto di non ritorno, ciò che permette alla morte di presentarsi come spettacolo, e la cognizione dell’inferno che si è scatenato non li dobbiamo cercare solo nei media. Non li dobbiamo cercare nemmeno nella vita quotidiana, dove tutto sembra continuare come prima. Ma dentro di noi, prima di tutto dentro di noi».
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