Salute mentale

Cosa dice di noi questa corsa al “baby botox”

L'interiorizzare lo sguardo altrui sul proprio aspetto consuma le risorse e viene facilitato dai social media che impongono il confronto con modelli irrealistici e vite idealizzate. Per la psicologa Francesca Guizzo dell'Università di Padova, che studia i fenomeni sociali legati al corpo femminile, all'immagine di sé e ai social media, serve formazione anche nei più piccoli

di Nicla Panciera

«Cresce la corsa al ‘baby botox’, ovvero micro-dosi di tossina botulinica utilizzate non per cancellare le rughe, ma per prevenirle. Secondo gli ultimi dati dell’International Society of Aesthetic Plastic Surgery, le richieste tra gli under 30 sono aumentate del 40% nell’ultimo anno, segnando una svolta culturale anche nel nostro Paese». Recita una nota dell’Associazione Italiana Terapia Estetica Botulino Aiteb.

È passato poco più di un anno da quando, complice l’hashtag #sephorakids, i media di tutta Europa lanciarono l’allarme cosmeticoressia, la preoccupazione eccessiva per l’aspetto estetico accompagnata dall’utilizzo di prodotti per la bellezza da parte di giovanissimi, maschi e femmine, dagli 8 ai 14 anni di età. Si disse che il fenomeno era frutto di una sapiente combinazione di marketing e social media influencer in un momento della vita di grande trasformazione non solo fisica.

«Non ci sono evidenze sperimentali che danno la certezza di una relazione causa effetto, ma esistono già molti studi correlazionali che confermano l’associazione tra l’uso dei social media e il maggior interesse verso la chirurgia e interventi estetici anche poco invasivi» ci spiega Francesca Guizzo, ricercatrice dei fenomeni sociali legati al corpo femminile, all’immagine di sé e ai social media presso il dipartimento di psicologia dello sviluppo e della socializzazione e il dipartimento di filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata dell’Università di Padova. Guizzo si sta occupando proprio di questi temi: «Abbiamo già dei dati su giovani adulti di entrambi i sessi e partiremo a breve con gli adolescenti».

La ricercatrice ci spiega il razionale dietro l’associazione: «Da un lato, c’è la natura stessa dei social media, dove mettiamo in scena la miglior versione di noi stessi nelle diverse dimensioni personale, sociale e professionale. Tale visione idealizzata riguarda anche e soprattutto l’immagine corporea e l’aspetto estetico». A questo si aggiunga «la nostra naturale tendenza al confronto sociale con i nostri pari, che spesso fornisce anche una sana spinta al miglioramento personale ma può essere anche non positivo». Quando il confronto viene fatto con le altrui rappresentazioni poco fedeli o parziali, e con una platea amplissima come quella che si trova in rete, l’individuo può trovarsi davanti a standard troppo elevati, irraggiungibili, provando «ciò può portare a vissuti negativi e anche all’interesse verso la medicina estetica» spiega Guizza che fa notare come sia «un confronto al quale può essere molto difficile sottrarsi, in particolare quando dei social si fa un uso passivo». La ricerca punta anche a individuare i meccanismi protettivi come caratteristiche caratteriali o interventi educativi come quelli di alfabetizzazione mediatica. «Sostengo interventi anche molto precoci, alle scuole elementari» conferma la ricercatrice, «Penso a corsi per promuovere un utilizzo consapevole di questi strumenti così diffusi, che spieghino i possibili rischi e l’importanza di avere la consapevolezza di come ci si può sentire utilizzandoli, di eventuali insoddisfazioni e malumori. Infine, interventi di questo tipo sono utilissimi per prevenire l’uso problematico dei social, un altro immenso capitolo di questa storia».

Studi in rapida crescita, ma piuttosto recenti. A differenza di quelli relativi alla cosiddetta self-objectivation o auto-oggettivazione, che indica l’interiorizzazione dello sguardo di uno spettatore esterno sul proprio aspetto. Tendenza pericolosa in un’età della vita in cui si sta cercando di definire il senso di sé, l’autoefficacia e l’autostima. Non da ultimo, «ciò porta ad allocare risorse cognitive per il monitoraggio continuo del nostro corpo, in modo cronico. Le conseguenze includono vergogna per il proprio corpo; ansia per il proprio aspetto; riduzione dell’immersione in un compito che si sta svolgendo, cognitivo, matematico, di attenzione sostenuta; maggior rischio di sviluppare disturbi della sfera alimentare, dell’umore e sessuali».

Le più a rischio sono le ragazze. E non è un caso. Infatti, il contesto culturale e sociale in generale qui conta moltissimo. «L’attenzione pur eccessiva per la desiderabilità estetica è bene accetta in una ragazza, non viene percepita come problematica; è una questione sociale» spiega Guizza «Il mondo dei social non ha una connotazione negativa o positiva, ma rispecchia o amplifica quello che c’è nel mondo. Le differenze di genere e la rappresentazione del femminile e del corpo femminile sono all’origine del problema, cui si aggiunge anche una diffusa sottorappresentazione dei corpi che non rientrano in un certo ideale».

Foto di Taan Huyn su Unsplash

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