Testimoni

Beata Anna Sperczyńska, la tata di Acutis: «Così ho fatto conoscere Gesù a Carlo»

In occasione della canonizzazione di Carlo Acutis abbiamo incontrato la sua tata polacca: «Carlo fa parte della mia vita e io lo ringrazio ogni giorno: mi sento molto privilegiata per essergli stata vicino. Ho tanta speranza in lui. La canonizzazione è solo l’inizio di una storia pazzesca. Tante altre cose succederanno grazie a lui»

di Diletta Grella

La prima preghiera che Carlo Acutis ha imparato è stata l’Angelo di Dio. In polacco, però, non in italiano. A insegnargliela fu la sua tata, Beata Anna Sperczyńska, che visse in casa con lui e con la sua famiglia, a Milano, per tre anni, dal 1993 al 1996 (dai due ai cinque anni di vita del bambino). E che è cresciuta in un paesino di cinquecento persone nel Sud della Polonia, in provincia di Opole. «Carlo la canticchiava tutte le sere, come una canzoncina per bambini, con la sua vocina allegra», racconta Beata: «Aniele Boży, stróżu mój», cioè «Angelo di Dio, che sei il mio custode» e subito dopo ci addormentavamo insieme nella stessa stanza.

Beata oggi vive a New York, ed è managing director di una importante agenzia creativa: è arrivata da un paio di giorni a Roma, in San Pietro, per la cerimonia di canonizzazione di Carlo. Al telefono la sua voce fa trasparire le mille emozioni che può provare una donna che si sente parte di una storia più grande di lei. «Non sono solo emozionata, io mi sento a disagio», spiega. «Da tempo rifletto su quello che è successo. Penso di essere stata uno strumento che serviva per un disegno più grande. Di sicuro mi sento scelta da Carlo. Sì, penso che lui mi abbia scelto: sono stata io a parlargli per la prima volta di Dio, che per lui era uno sconosciuto. Ma a parte questo, io non sono nessuno».

Come ha conosciuto Carlo?

Vivevo in Polonia e avevo un fidanzato, che ai miei genitori non piaceva proprio. Nel 1993 – io avevo 21 anni – mio padre mi dà dei soldi per fare un viaggio con questo ragazzo in Italia, convinto che passando del tempo insieme ci saremmo lasciati. Arriviamo a Napoli, in un albergaccio vicino alla stazione, e ci mettiamo a cercare un lavoro, per pagarci gli studi universitari che avremmo iniziato una volta tornati a casa. Il proprietario mi suggerisce di chiamare un suo amico, che stava cercando una tata per il nipotino. Pochi giorni dopo mi ritrovo a Centola, un paesino vicino a Palinuro, nella casa di vacanza di Antonio e Luana, i nonni materni di Carlo, che era lì con loro e che all’epoca aveva due anni. Il nonno mi chiede di fermarmi per la notte, ma la casa è piccola, quindi io dormo nella stessa stanza di Carlo. So che quello che dirò ora può sembrare pittoresco, ma mi ricordo quando ci siamo svegliati al mattino: lui indossava un pigiamino leggero e c’era una luce bellissima, che tagliava in due la nostra stanza. Quasi una terza presenza oltre a noi due. Io non parlavo ancora bene l’italiano e lui era molto piccolo, quindi abbiamo iniziato a comunicare facendo i versi degli animali. Tra noi è nato subito un feeling pazzesco. Al punto che il nonno, quel mattino, ha chiamato Antonia e Andrea, i genitori di Carlo, e ha detto che io ero la persona giusta. Dopo alcuni giorni, arrivano in Campania e mi chiedono di andare a vivere in casa con loro a Milano. Non ci penso un attimo, lascio il mio ragazzo e mi trasferisco nel capoluogo lombardo, dove non ero mai stata prima. 

Come trascorrevate le giornate tu e Carlo?

In casa c’erano regole e orari da rispettare. Pranzo e cena erano momenti importanti, da condividere in famiglia. Per il resto della giornata eravamo sempre insieme, io e lui.

Io venivo da un paesino di campagna immerso nella natura, i miei nonni mi avevano insegnato che, per stare in salute, era importante togliersi le scarpe e camminare nell’erba bagnata dalla rugiada. Quindi tutti i giorni, portavo Carlo nei giardini di Pagano, ci toglievamo le scarpe – anzi, io avevo gli zoccoli – e camminavamo. Camminavamo e ridevamo. Poi i genitori di Carlo l’hanno scoperto e si sono un po’ preoccupati di quello che avremmo potuto calpestare e quindi abbiamo smesso…

E poi c’è un’altra cosa che io avevo imparato da piccola: pregare. La Chiesa, in Polonia, era il nostro unico punto di riferimento culturale e centro di aggregazione. Quindi, uno dei primi giorni in cui ero a Milano, io e Carlo siamo entrati nella Chiesa di Santa Maria Segreta – la stessa dove sarebbe stato celebrato il suo funerale – abbiamo acceso una candela e poi io gli ho parlato di Gesù. Carlo torna a casa felicissimo e racconta tutto ai genitori, che non la prendono benissimo. La mamma, Antonia, viene da una famiglia laica. Il papà, Andrea, ha ricevuto un’educazione cattolica, ma all’epoca non era praticante. Un po’ dispiaciuto che io avessi preso l’iniziativa di entrare in una chiesa con suo figlio, senza informarlo prima, mi fa capire che sarebbe stato meglio che questo episodio non si ripetesse più. 

L’indomani usciamo e Carlo mi supplica di andare a salutare Gesù. Gli spiego che non possiamo disubbidire ai suoi genitori. «Ma Bea», mi dice lui, «non posso non andare a trovare il mio amico. Questo sarà il nostro segreto». 

Solo che, appena rientrato a casa, è corso raggiante dai genitori a spifferare tutto. Era evidente che nessuno poteva arginare il suo entusiasmo e da quel momento non c’è stato giorno in cui non siamo entrati insieme in una chiesa. Spesso andavamo a messa, in Santa Maria delle Grazie, portavamo insieme le offerte all’altare e ci fermavamo a parlare con i frati. Abbiamo pregato davanti a tanti tabernacoli. Carlo non capiva che Gesù è uno solo, quindi se entravamo in una chiesa dove non eravamo mai stati prima, alla sera raccontava ai genitori felice: «Oggi ho conosciuto un altro amico, un altro Gesù».

E i genitori, inizialmente un po’ scettici, come hanno reagito? 

Si fidavano di me. Ed erano felici del rapporto che si era creato tra me e Carlo. Poi avevano capito che per me la fede era fondamentale: avevano visto che in valigia avevo la Bibbia, il libretto di preghiere della prima Comunione, i santini della Madonna di Częstochowa. Mi ricordo come fosse ieri, di quel dialogo che abbiamo avuto io e Carlo sul colore della pelle della Madonna di Jasna Góra. Lui che insisteva che era nera e io che cercavo di spiegargli che il colore dipendeva dai vari strati di vernice scura, dati per conservare il dipinto. E poi mi ricordo che tutte le sere ci inginocchiavamo vicino al letto e pregavamo, spesso dicevamo il rosario. Lui aveva un rosarietto, da una decina, che teneva in mano quando si addormentava e al mattino lo ritrovavo nel letto. Ho sempre pregato in polacco, quindi Carlo ha imparato prima tutte le preghiere nella mia lingua e poi, crescendo, anche in italiano.

Se dovesse descrivere Carlo, che aggettivi useresti?

Era un bambino allegro, solare. I capricci ci sono stati, ma pochi. Non mi ha mai fatto perdere la pazienza. Anzi, se ci penso, forse io qualche volta l’ho fatto piangere ingiustamente, perché magari ero stanca e non avevo voglia di dargli qualcosa che avrebbe potuto avere. E poi Carlo faceva tante domande, voleva capire, approfondire. Era molto intelligente, capace di comprendere la complessità e le innumerevoli sfumature della realtà. Aveva una bella famiglia, era circondato da persone in gamba, colte, che lo amavano e lo stimolavano molto. Tutte con una loro personalità ben definita. Lui, fin da bambino, era in grado di capire come relazionarsi con ciascuna di loro e come anche tirare fuori il meglio da loro. E poi Carlo non temeva il giudizio degli altri, andava diritto per la sua strada…

Che cosa intende?

Mi ricordo quando siamo andati al compleanno di un suo amichetto. Io indossavo i miei inseparabili zoccoli e avevo al collo il rosario che mi avevano regalato alla mia prima comunione. Zoccoli e rosario all’epoca non erano proprio un look da centro di Milano. Ho sentito alcune mamme che ironizzavano su di me e d’istinto ho nascosto il rosario dentro la camicia. Carlo se ne è accorto e mi ha detto con grande slancio e freschezza: «Bea, è la collana più bella del mondo, non nasconderla!». Risento ancora la sua voce e mi viene la pelle d’oca.

Hai testimoniato nel processo di canonizzazione?

Sì, ore di domande in Curia a Milano. Ho giurato sulla Bibbia di dire la verità. Non posso raccontare niente, ma è stata un’emozione incredibile.

Carlo ti ha cambiato?

Carlo mi ha fatto maturare. Quando l’ho incontrato era una ragazza. Con lui sono diventata una donna, ho imparato come si cresce un bambino. Lui e la sua famiglia, con cui ho sempre mantenuto un legame, mi hanno insegnato tanto.

Sono rimasta con loro tre anni, poi mi sono innamorata e nel 1996 sono andata a vivere con il mio fidanzato, mi sono sposata e abbiamo avuto un bambino. So che Carlo ha sofferto molto di questo distacco. Aveva solo cinque anni. Ho pensato a me, alla mia felicità, e forse non ho protetto lui, le sue emozioni. Mi interrogo ancora oggi su quel distacco così doloroso per entrambi. Non ho mai smesso però di vederlo. Diverse volte sono andata a trovarlo con mio figlio Konrad e abbiamo fatto gite e vacanze insieme con la sua famiglia. Con Antonia ci sentiamo spesso.

Carlo è mancato nel 2006. Da allora si è fatto risentire in qualche modo nella sua vita?

Subito dopo la sua morte, io lo vedevo dappertutto. Un giorno stavo camminando in corso Sempione e ho trovato un portafoglio con parecchi soldi. Lo porto al commissariato di polizia. Poco dopo mi richiamano per dirmi che il proprietario vuole ringraziarmi. Viene a trovarmi a casa con un’orchidea gigante, ci mettiamo a parlare e scopro che era l’insegnante di ginnastica di Carlo al liceo Leone XIII. 

Lo sogno spesso e ricompare sempre nella mia vita. Settimana scorsa ero a Częstochowa, un luogo fondamentale per me. Mi metto a parlare con una suora che fa da guida nel santuario e che mi racconta, entusiasta, che era appena arrivata una reliquia dall’Italia: «Una reliquia di Carlo Acutis, ne ha sentito parlare?». Ho tergiversato un attimo, poi non ho resistito e gli ho raccontato chi ero. Lei mi ha abbracciato ed è corsa a chiamare altre suore perché venissero a conoscermi. Ho un invito a pranzo a casa loro, per quando tornerò in Polonia, perché vogliono sapere tutto. 

Carlo fa parte della mia vita e io lo ringrazio ogni giorno: mi sento molto privilegiata per essergli stata vicino e anche molto fortunata per tutto ciò che di bello ho ricevuto nella mia vita. Ho tanta speranza in lui. La canonizzazione è solo l’inizio di una storia pazzesca. Tante altre cose succederanno grazie a Carlo.

Foto fornite dall’intervistata: in apertura Beata Anna Sperczyńska con Carlo Acutis, nell’articolo con loro anche la madre di Carlo, Antonia

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