Mondo
Beirut: la notte è finita?
Uno dei più noti registi libanesi ha raccolto le sue impressioni allindomani della tregua. E per Vita ha scritto questo diario drammatico. Di Ghassan Salhab
di Redazione
Lunedì 14 agosto 2006. La cessazione delle ostilità (per riprendere la terminologia quanto meno alambiccata della risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza delle cosiddette Nazioni unite) è effettiva. Avevo messo la sveglia alle 8 meno dieci, cioè dieci minuti prima dell?ora ufficiale di questa cessazione. L?aviazione nemica, la sua marina, tutta la sua artiglieria non hanno smesso di bombaradre il sud, la Bekaa, il sud di Beirut sino all?ultimo secondo. Cronometro in mano, Tsahal ha interrotto la sua infernale potenza all?ora precisa. I miei vicini hanno avuto la stessa idea. Le idee e le notizia attraversano i muri. Questa fottuta televisione che già in tempi normali non si decide mai a stare in silenzio, è più che mai presente. Senza più aspettare, a centinaia, a migliaia, gli sfollati si dirigono vero i loro villaggi devastati.
Che cosa resta delle loro case? In ogni caso è chiaro che loro non vogliono più vivere da assistiti. Però quello che li attende è inimmaginabile. Chilometri e chilometri di code su strade sventrate. Sin dall?inizio i raid hanno bombardato a tappeto soprattutto il sud e l?est della Bekaa, dividendo il paese in due. Una frontiera potrebbe essere tracciata: da un parte la terra dove Hezbollah è più o meno insediato, dall?altra il resto del paese. Lo sfollamento di circa un milione di persone dalle regioni devastate ha bruscamente mischiato le comunità: sunniti e sciiti, maroniti e sciiti, drusi e sciiti. Gli sciiti erano il denominatore comune, ovviamente. Persone che tutt?al più, prima, si sfioravano, si sono trovate faccia a faccia, gli uni sotto i loro tetti, gli altri sotto tetti provvisori. La periferia e il centro, il rurale e l?urbano, improvvisamente mischiati. Certo l?emergenza ha determinato uno slancio di solidarietà, ma questa inattesa promiscuità ha naturalmente provocato scintille, anche inimicizie in alcuni casi. La realtà è che le comunità che compongono il Libano sono molto lontane dall?integrarsi. Nel migliore dei casi vivono fianco a fianco, ma ciascuno per sé. Questa cessazione delle ostilità è arrivata in tempo perché i rapporti non degenerassero: o forse troppo presto – chi può dirlo? – per sapere se in fin dei conti non avremmo imparato a vivere insieme.
Come ciascuno sa, Beirut, la capitale, è stata per così dire risparmiata: il terrore e l?orrore erano alle sue porte. Tre o quattro chilometri al più ci separavano e continuano a separarci dalla periferia sud. Tonnellate e tonnellate di bombe di ogni tipo si sono abbattute su interi quartieri, devastandoli, annientandoli. In questo primo giorno di tregua, come tante altre persone, ho voluto anch?io vedere con i miei occhi. Camminando vedevo le case che portavano ancora i segni delle guerre precedenti e che si presentavano con un?aria di stranezza: nessuno prestava più loro attenzione. I nuovi segni della guerra sono di tutt?altro genere. Il fuoco del nemico si è scatenato con una potenza che supera l?immaginazione. Pe quanto questo paese ci sia abituato, è quasi un spettacolo irreale. Mi tornano in mente le immagini di Dresda o quelle di Grozny. Qui siamo solo felici che la maggior parte degli abitanti abbia potuto venir via prima dell?inferno. Chi è tornato lo ha fatto per recuperare quel che si poteva e per constatare il disastro. In questo tempo di banalizzazione dell?orrore, ciascuno ha aggiunto le sue immagini, con il suo piccolo apparecchio digitale, in mezzo all?orda di fotografi e di telecamere. Anch?io non mi sono trattenuto, con la mia videocamera. E quando sono venuto il giorno dopo, ho visto cose anche peggiori. Mi sono trovato paralizzato, incapace di filmare. Quello che avevo davanti superava la soglia di tolleranza, era troppo smisurato. Avevo la sensazione che noi non avessimo ancora percepito l?ampiezza della catastrofe. Del resto come avremmo potuto? Tutto è arrivato così d?improvviso? Sì, con i miei occhi o attraverso la piccola finestra televisiva, mi sento ridotto al ruolo di spettatore, spettatore del nostro stesso disastro. Un terzo del mio paese non è altro che un campo di rovine; e noto che il dolore è pressoché invisibile, tra quelli che tanto hanno perduto. Può esser che sia un dolore tutto interiorizzato, può essere che la violenza estrema l?abbia trasformato in collera, può essere che la capacità di resistenza abbia come anestizzato quel nervo. Ma mi inquieta il dopo, quando ci si renderà pienamente conto dell?estensione dei danni, dell?immensità dell?impresa di ricostruzione, con l?inevitabile corruzione che l?accompagnerà. L?ebbrezza per la ?vittoria? che si è impossessata di una gran parte della popolazione per forza è destinata a spegnersi. Certo non siamo sconfitti – lo siamo già stati troppe volte – ma non siamo neppure vittoriosi. L?umiltà sembra aver disertato le nostre sponde?
Ci si domanda di applicare la risoluzione 1701, e non c?è bisogno di un grande sforzo per capire che si attende al varco soprattutto il Libano. Il governo riuscirà ad applicarla? Sembra questa la sola incognita, Israele essendo ipso facto nel suo buon diritto alla difesa. Quello stesso Israele che si è fatto beffe di un numero incredibile di risoluzioni Onu. La verità è che la pace non conviene allo stato ebraico. Altrimenti gli basterebbe accettare la proposta chiara emersa dalla conferenza dei paesi arabi nel 2002 qui a Beirut: tutte le terre arabe occupate in cambio di una pace senza condizioni. Dubito che saremmo dove siamo se Israele avesse applicato la risoluzione 242 del 1967. Né la 338, né la 1322, né la 1397, né la 1435, né la 425, né la 1559 e neppure la 1701 avrebbero visto la luce. Non se l?Hezbollah (conseguenza diretta dell?invasione israeliana del 1982) e Hamas avrebbero visto la luce. Ne dubito. Il mondo è una questione dinamica. Il rifiuto di Israele di dare ai Palestinesi un loro stato vitale, l?accecamento (o senso di colpa) di gran parte dell?occidente, insieme, beninteso, al dispotismo che regna in una gran parte del mondo arabo (dei despoti che sono in gran parte amici del cosiddetto mondo libero) hanno creato un dinamismo infernale? Si attende la varco quindi il movimento delle truppe libanesi e l?evoluzione dei dissensi sulla scena politica libanese. Com?è bello quest?esercito, con le bandiere ai quattro venti, con il suo equipaggiamento un po? consunto. Non oso immaginare cosa accadrebbe a tutti questi ragazzi nelle loro belle uniformi se la situazione dovesse di nuovo incendiarsi. Non che voglia giustificare Hezbollah e la sua strategia di guerriglia, ma quando vedo la potenza di Israele e ascolto la frustrazione dei suoi generali, mi dico che questi ragazzi sono imprigionati in una divisa orribile.
E intanto la corsa alla ricostruzione è ricominciata. Da una parte i soldi di Hezbollah (che è sempre misterioso e non ci dice mai l?origine di questi soldi), dall?altro il denaro raccolto dallo stato, senza dimenticare le donazioni private. «Chi ha ricostruito una volta, può farlo una seconda», e anche: «Si ricostruisce, il Libano ritorna». Sono i manifesti di non so più quale banca esposti sui grandi cartelloni pubblicitari. «Un popolo di imprenditori», dice poi lo slogan.
Ma in un mese la noszione di Tempo si è persa. Noi eravamo fuori dal tempo, furoi da noi stessi. I minuti, le ore, i giorni non si distinguevano se non nella loro costante constatazione di un naufragio. Quando il tempo non ha più la sua semplice funzione, quando il nostro rapporto con lui non ha più questa semplice funzione, che cosa dire? Sì, fuori dal tempo, fuori dal mondo, di noi stessi e nello stesso tempo, se posso dire, più òai faccia a faccia con noi stessi, tanto eravamo nell?impotenza, senza difese. Noi siamo stati brutalemente riportati alla nostra vita nornale, alla normalità. Ma sino a quando durerà il silenzio dell?angosciante pioggia dell?aviazione nemica? Sino a quando non sentiremo il rumore delle bombe che lacera il silenzio delle notti? In realtà la normalità non è proprio di ritorno. Il respiro del paese è ancora sospeso. Siamo com in un purgatorio, senza sapere se ci si dirige verso l?inferno o verso il paradiso. La verità è che dall?oggi all?indomani le nostre vite sono state sconvolte e non possiamo far finta che niente sia accaduto e anche noi non possiamo farci nulla. Gli eventi non smettono di
cambiare, ma non possiamo dire che progrediamo, anzi siamo ben lungi dal farlo.
Ghassan Salhab, regista, è nato a Dakar nel 1958. Dal 1970 si è trasferito a Beirut, dove vive con la sua famiglia. Ha studiato cinema a Parigi. Si è fatto conoscere a livello internazionale presentando a Cannes nel 2006 il suo film Terra incognita, un film dedicato a Beirut ?la città sette volte distrutta e sette volte ricostruita?. Tema del film: quale vita inventarsi dopo una catastrofe? Per questo Vita ha chiesto a Salhab di immaginarsi come possa riprendere la vita dopo l?ultima tragedia che ha colpito la sua città.
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