Dibattiti

Benefit non vuol dire cosmesi

Due avvocati, esperti in diritto delle società che perseguono un beneficio comune, intervengono nel dibattito portato su VITA dal presidente dei Assobenefit, Mauro Del Barba. «Non è un'operazione di maquillage ma un impegno», scrivono

di Giuseppe Taffari e Emiliano Giovine

Nelle scorse settimane abbiamo iniziato un dibattito sulle società benefit con un’intervista a Mauro Del Barba, il padre della legge che ne ha recepito il modello nell’ordinamento italiano. Il parlamentare, presidente di AssoBenefit, interveniva in risposta a un severo intervento di Mario Calderini sul Corriere, incentrato sul fatto che il cammino intrapreso da aziende verso una maggiore sostenibilità richieda più realizzazioni che certificazioni. Ne avevamo parlato diffusamente in un numero della nostra newsletter ProdurreBene che potete leggere qui. Ora due avvocati esperti in materia di società benefit rilanciano il dibattito. (G.Cerri)

La vulgata che vede l’acquisizione della qualifica di società benefit, essenzialmente come una modifica statutaria, rischia di far sembrare questa scelta quasi come un mero adempimento formale, senza conseguenze particolari.  È inutile dire che non è così.

Le finalità di beneficio comune, che le società benefit devono perseguire, cristallizzano gli impegni che queste ultime intendono assumersi nella generazione di impatti positivi, o la riduzione di effetti negativi, nei confronti di persone, comunità, ambiente, etc.  

Non si tratta, dunque, di indicare in statuto azioni o obbiettivi specifici, quanto piuttosto di individuare delle “finalità”,  che fra l’altro non devono necessariamente avere delle assonanze con l’oggetto sociale, rispetto al quale il legislatore non effettua alcuna discriminazione.  In altre parole, l’impatto generato dalle società benefit prescinde dalla natura del loro scopo. 

Non è maquillage

Non ci troviamo, quindi, di fronte ad un intervento cosmetico, volto a rendere maggiormente attraente l’immagine di una società, ma ad un impegno specifico per gli amministratori che sono tenuti ad operare un bilanciamento degli interessi tra l’attività di impresa ed il perseguimento delle finalità di beneficio comune.

È evidente, dunque, come non si tratti di un passaggio senza conseguenze: non tener fede a tale obbligo, può comportare una specifica responsabilità per gli amministratori ai sensi del Codice Civile.

Inoltre, occorre considerare che la norma sulle società benefit ha avuto il merito, forse per la prima volta, di fare emergere una “governance dell’impatto”. Oltre all’assunzione di precise responsabilità da parte degli amministratori non si può, infatti, non considerare il ruolo del responsabile dell’impatto – la cui nomina è obbligatoria – e dell’organo di controllo, chiamato a vigilare sul rispetto della legge e dello statuto.

All’interno di questo scenario, una importanza fondamentale è rivestita dagli obblighi di reporting.  

Se, infatti, tali obblighi fossero interpretati tenendo conto dello spirito della norma – che impone espressamente di effettuare una valutazione d’impatto e non solo una disclosure delle attività poste in essere – potrebbero diventare un elemento oggettivamente distintivo, in grado di far emergere la dimensione sostenibile ed innovativa di una società.

Un impegno oltre la certificazione

Senza contare come, rispetto a qualsiasi forma di certificazione,  la qualifica di società benefit rappresenta un impegno, pressoché perpetuo, ed un mutamento identitario che accompagnano la società per tutta la sua durata.

È innegabile che la percezione diffusa di questa nuova formula imprenditoriale, sia ancora lontana dal riconoscerne il valore come strumento di possibile rigenerazione del nostro tessuto economico-industriale e le ragioni sono diverse e comprensibili. La mancanza di forme di incentivazione o premialità, un sistema sanzionatorio ancora non particolarmente incisivo, ad esempio.

Guardando, però,  alle recenti evoluzioni normative il coefficiente di opportunità nell’adottare questo modello potrebbe aumentare in maniera esponenziale. 

Basti pensare agli obblighi introdotti dalla Corporate sustainability reporting directiveCsrd, in base al quale sempre più imprese (e a cascata le loro filiere) saranno chiamate a rendicontare su come i fattori Esg influenzino le prestazioni finanziarie e su quale impatto abbiano le proprie attività, o alle novità contenute  nella proposta di Direttiva sulla Corporate sustainability due diligence.

Non c’è alcun dubbio sul fatto che le società benefit possano rappresentare una piattaforma tramite la quale accogliere le istanze sempre più pressanti che emergono in ambito comunitario, oltre che  un target per investitori alla ricerca di modelli di business Esg oriented.

Per far ciò, però, non basta uno statuto. La sfida va giocata anche al tavolo dell’impatto, in quanto solo facendo leva su adeguati sistemi di rendicontazione, valutazione e misurazione si potrà passare dalle parole ai fatti.

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