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Beni confiscati: 3500 all’asta

Ombre su chi potrebbe acquistare le proprietà appartenute a boss del calibro di Brusca e Riina

di Chiara Caprio

Nel 2008, Candido Cannavò, trattando di Libera e delle vittorie della società civile contro la mafia, scriveva: «La legge sull’utilizzo sociale dei beni confiscati fu un traguardo dell’uomo e simbolo della provvidenza. L’infamia si trasforma nel suo opposto, il destino si muta in speranza: dal dolore e dal sopruso fioriscono prodotti della stessa terra liberata che poi entrano in un commercio che reca i simboli della legalità». Oggi però, la situazione è mutata. La Finanziaria è passata con 307 sì e 271 no, con un testo blindato dalla fiducia e, soprattutto, con l’emendamento Saia, dal nome del senatore Pdl proponente.

La nuova misura prevede che «i beni (…) di cui non sia possibile effettuare la destinazione o il trasferimento per le finalità di pubblico interesse ivi contemplate entro i termini previsti dall’articolo 2-decies (180 giorni dalla confisca definitiva, ndr), sono destinati alla vendita», con l’aggiunta del diritto di prelazione accordato a enti locali e forze dell’ordine. Ma gli effetti dell’emendamento si faranno sentire.

Secondo quanto denuncia l’associazione Libera, saranno oltre 3500 i beni immobili confiscati (SCARICA L’ELENCO QUI A LATO) e non ancora destinati che potrebbero essere venduti all’asta, tra cui beni strappati al gotha della criminalità organizzata italiana. A scorrere l’elenco pubblicato dall’associazione fondata da Don Ciotti vengono i brividi.

In Campania potrebbe essere venduto il terreno confiscato a Walter e Francesco Schiavone, il famoso Sandokan, che rientrava nell’azienda bufalina gestita dai due fratelli e rimasta in attività fino al 2005. Dal 2002 sotto confisca, l’azienda viene letteralmente distrutta dal clan, che abbatte i silos, ammazza le bufale (oltre 2000 capi di bestiame), e incendia i depositi di foraggio. Il principio, riportato da Libera, è chiaro “Niente per noi, niente per nessuno”. Ma non basta. In Calabria potrebbero finire in vendita gli immobili confiscati a Isola di Capo Rizzato al boss della cosca locale Nicola Arena, mentre a Locri potrebbero andare all’asta gli appartamenti confiscati ad Antonio Cordì, potente capo della ‘Ndrangheta chiamato “U ragiuneri”. E sempre secondo il documento diffuso da Libera, anche in Sicilia verrebbe sferrato un colpo letale alla lotta per l’uso sociale dei beni confiscati. In vendita andrebbero gli appartamenti confiscati a Leoluca Bagarella, a Vito Ciancimino, a Salvatore Riina, per un valore totale di oltre un milione di euro. Senza contare i terreni ancora in attesa di una destinazione definitiva: i poderi di Giovanni Brusca (in foto) a San Giuseppe Jato in zona contrada Mortilli e il terreno confiscato a Giuseppe Pulvirenti a Belpasso. Nomi che parlano da soli, cui si aggiunge il terreno confiscato a Michele Greco, il “Papa” di Cosa Nostra, oggi assegnato al Comune di Polizzi (ma gravato da ipoteca) dopo una strenua lotta con la mafia, che per vie legali cerca da tempo di strapparlo allo Stato, chiedendo che venga messo in vendita dalla banca.

E come se non bastasse, l’emendamento arriva proprio quando la relazione annuale del 2009 del commissario straordinario del governo per la gestione e la destinazione dei beni confiscati, Antonio Maruccia, elenca i successi in fatto di confische e destinazioni. Secondo la relazione, su 8.933 beni immobili confiscati 5.407 (pari al 60,5%) sono stati destinati, di cui 1.438 negli ultimi 18 mesi, per un incremento annuo delle destinazioni del 42% rispetto al 2007. Cresce anche il valore complessivo dei beni confiscati, aumentato del 52% (pari a 225 milioni di euro), mentre sale l’incremento medio annuo delle consegne, che aumenta del 15% rispetto al 2007.

Numeri positivi, che amplificano l’appello lanciato da Don Ciotti, che spiega come «è facile immaginare, grazie alle note capacità delle organizzazioni mafiose di mascherare la loro presenza, chi si farà avanti per comprare ville, case e terreni appartenuti ai boss e che rappresentavano altrettanti simboli del loro potere, costruito con la violenza, il sangue, i soprusi, fino all’intervento dello Stato».

«La vendita di quei beni significherà una cosa soltanto: che lo Stato si arrende di fronte alle difficoltà del loro pieno ed effettivo riutilizzo sociale. E il ritorno di quei beni nelle disponibilità dei clan a cui erano stati sottratti avrà un effetto dirompente sulla stessa credibilità delle istituzioni».


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