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Bergoglio e il terrorismo dell’economia speculativa
«Il nuovo imperialismo del denaro toglie di mezzo addirittura il lavoro, che è il modo in cui si esprime la dignità dell’uomo, la sua creatività, che è l’immagine della creatività di Dio. L’economia speculativa insegue l’idolo del denaro che si produce da se stesso. Per questo non si hanno remore a trasformare in disoccupati milioni di lavoratori». Un’intervista con l’allora cardinale Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires molto significativa
di Redazione
Se qualcuno avesse scambiato la sua mitezza per rassegnazione, si dovrà ricredere. Nel 2002, nel bel mezzo del crac dell’economia argentina, il cardinale Jorge Mario Bergoglio usò parole taglienti, denunciando «la corruzione generalizzata che mina l’unità della nazione e ci toglie prestigio agli occhi del mondo». Nel bel mezzo delle dimostrazioni di piazza che nel dicembre 2002 scossero l’Argentina, la rabbia della borghesia che si ritrova improvvisamente sul lastrico, la repressione delle forze dell’ordine l’allora arcivescovo di Buenos Aires chiamò subito al telefono l’allora presidente De La Rua chiedendogli di fermare le cariche della polizia. Davanti a un popolo strangolato dai meccanismi anonimi e perversi dell’economia speculativa, anche lui, che passa per essere una persona mite e riservata, arriva ad usare parole taglienti come quelle usate in quel periodo in un’intervista al mensile 30Giorni.
Eminenza, cosa è successo in Argentina?
La Conferenza episcopale ha descritto nella lettera al popolo di Dio pubblicata il 17 novembre 2001 i tanti aspetti di questa crisi inedita: la concezione magica dello Stato, la dilapidazione del denaro del popolo, il liberalismo estremo mediante la tirannia del mercato, l’evasione fiscale, la mancanza di rispetto della legge tanto nella sua osservanza quanto nel modo di dettarla e applicarla, la perdita del senso del lavoro. In una parola, una corruzione generalizzata che mina la coesione della nazione e ci toglie prestigio davanti al mondo. Questa è la diagnosi. E al fondo, la radice della crisi argentina è di ordine morale.
Quella argentina appare anche come una crisi di sistema. Crisi del modello economico che si era imposto lungo gli ultimi due decenni.
C’è stato in questo tempo un vero terrorismo economico-finanziario. Che ha prodotto effetti facilmente registrabili, come l’aumento dei ricchi, l’aumento dei poveri e la drastica riduzione della classe media. E altri meno congiunturali, come il disastro nel campo dell’educazione. In questo momento, nella città e nelle zone abitative intorno a Buenos Aires ci sono due milioni di giovani che non studiano né lavorano. Davanti al modo barbaro in cui si è compiuta in Argentina la globalizzazione economicistica, la Chiesa di questo Paese si è sempre rifatta alle indicazioni del magistero. I nostri punti di riferimento sono, ad esempio, i criteri esposti con chiarezza nell’allocuzione di Giovanni Paolo II Ecclesia in America.
Lei ha citato il magistero. Settant’anni fa, nell’enciclica Quadragesimo anno, scritta poco dopo la crisi delle Borse del ’29, Pio XI aveva definito «imperialismo internazionale del denaro» il modello di economia speculativa capace di impoverire all’istante milioni di famiglie. Applicherebbe questa definizione all’Argentina di oggi?
È una formula che non perde mai di attualità, e contiene una radice biblica. Quando Mosè sale al monte per ricevere la legge di Dio, il popolo pecca d’idolatria fabbricando il vitello d’oro. Anche l’attuale imperialismo del denaro mostra un inequivocabile volto idolatrico. È curioso come l’idolatria cammina sempre insieme all’oro. E dove c’è idolatria, si cancella Dio e la dignità dell’uomo, fatto a immagine di Dio. Così, il nuovo imperialismo del denaro toglie di mezzo addirittura il lavoro, che è il mezzo in cui si esprime la dignità dell’uomo, la sua creatività, che è l’immagine della creatività di Dio. L’economia speculativa non ha più bisogno neppure del lavoro, non sa che farsene del lavoro. Insegue l’idolo del denaro che si produce da se stesso. Per questo non si hanno remore a trasformare in disoccupati milioni di lavoratori.
Quale bene hanno avuto a cuore gli uomini di Chiesa nel giudicare il modello economico che ora sta causando tante sofferenze al popolo? E il loro sguardo di pastori è sempre stato realista?
Sono importanti, a questo proposito, i documenti di Puebla. La Conferenza dei vescovi latinoamericani a Puebla segnò uno spartiacque. Si riuscì a guardare all’America Latina attraverso il dialogo con la sua propria tradizione culturale. E anche rispetto ai sistemi politici ed economici il bene che si aveva a cuore era l’insieme delle risorse religiose e spirituali dei nostri popoli, che si esprimono ad esempio nella religiosità popolare che già Paolo VI aveva esaltato nella lettera apostolica Evangelii nuntiandi al n. 48. L’esperienza cristiana non è ideologica. È segnata da una originalità non negoziabile. Che nasce dallo stupore dell’incontro con Gesù Cristo, dal meravigliarsi della persona di Gesù Cristo. E questo il nostro popolo lo mantiene, e lo manifesta nella pietà popolare. Tanto le ideologie di sinistra quanto questo imperialismo economico del denaro ora trionfante cancellano l’originalità cristiana dell’incontro con Gesù Cristo che tanti nel nostro popolo vivono ancora nella loro semplicità di fede.
In qualità di pastore, come considera il ruolo svolto dalla comunità internazionale e dagli organismi finanziari centrali nella crisi argentina?
Non mi sembra che pongano al centro della loro riflessione l’uomo, nonostante le belle parole. Indicano sempre ai governi le loro rigide direttive, parlano sempre di etica, di trasparenza, ma mi appaiono come eticisti senza bontà.
La Chiesa è coinvolta in diversi modi dalla crisi argentina. Quali criteri guidano la sua azione?
Nel coinvolgersi in questo tentativo comune di uscire dalla crisi in Argentina si tiene presente quanto insegna la Tradizione della Chiesa, che riconosce l’oppressione del povero e la frode nel salario agli operai come due peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio. Queste due formule tradizionali hanno una totale attualità nel magistero dell’episcopato argentino. Siamo stanchi di sistemi che producono i poveri perché poi la Chiesa li mantenga.
Il coinvolgimento della Chiesa nella crisi si esprime soprattutto in aiuto concreto, materiale.
Alle fasce più bisognose arriva solo un 40 per cento delle risorse a loro destinate dallo Stato, il resto si perde nel cammino. Ci sono tangenti. La Chiesa ha già aperto nelle parrocchie una rete capillare di mense per i bambini e per la gente sempre più numerosa che vive sulla strada.
La gerarchia cattolica ha anche accettato di coinvolgersi nella tavola della riconciliazione. Ma si è guardata dall’assumere il ruolo dell’entità moralmente superiore. «Abbiamo peccato tutti», ha detto il presidente della Conferenza episcopale Estanislao Esteban Karlic.
Siamo parte del nostro popolo. Partecipiamo con esso del peccato e della grazia. Possiamo annunciare la gratuità del dono di Dio solo se abbiamo sperimentato tale gratuità nel perdono dei nostri peccati. L’anno passato, la Chiesa argentina fece anche pubblicamente un periodo di penitenza e di richiesta di perdono alla società, pure in riferimento agli anni della dittatura. Nessun settore della società argentina ha chiesto perdono allo stesso modo.
Nell’ampia partecipazione ecclesiale al dialogo nazionale non c’è il rischio di protagonismo, o di snaturare l’immagine della Chiesa facendone una agenzia di consenso, che fornisce il collante culturale all’identità nazionale?
La Chiesa ha fatto solo le dichiarazioni necessarie. In questo ultimo anno ce ne sono state cinque, molto forti, più una lettera al popolo di Dio. In questi interventi sempre si invitava a cercare un dialogo tra le parti della società. Ma come è scritto nel documento della Conferenza episcopale del 14 gennaio, «il dialogo tra gli argentini è stato convocato dal presidente della nazione per riunire i settori rappresentativi di tutto il Paese […]. La Chiesa, da parte sua, offre l’ambito che non è principalmente fisico, ma spirituale. In totale coerenza con la sua natura, come insegna splendidamente la dottrina del Concilio Vaticano II. La Chiesa, come istituzione non partecipa come un membro in più, ma come chi offre uno spazio di incontro». Questo è bene che sia chiaro. Il dialogo non lo convoca la Chiesa né lo conduce la Chiesa. Lo ha convocato e lo porta avanti il presidente, con l’assistenza tecnica delle Nazioni unite. La Chiesa offre l’ambito per il dialogo, come uno che offre la casa perché due fratelli si incontrino per riconciliarsi. Ma non è un settore, una lobby, una parte che interviene nel dialogo a fianco di altri gruppi di interesse e di pressione.
La classe dirigente si trova in un totale discredito. Sembrerebbe aver ragione chi teorizza l’eliminazione della politica e la destrutturazione dello Stato.
Bisogna rivendicare l’importanza della politica, anche se i politici l’hanno screditata, perché, come diceva Paolo VI, può essere una delle forme più alte della carità. Nel nostro Paese, ad esempio, la mentalità funzionalista connessa al modello economico imperante ha fatto i suoi esperimenti sui due estremi della vita, i bambini e gli anziani, le due fasce d’età più colpite dalla crisi, provocando effetti devastanti nel campo dell’educazione, della sanità e dell’assistenza sociale. E un popolo che non cura i suoi bambini e i suoi anziani non ha speranza.
L’appoggio dato dalla gerarchia cattolica al tentativo del presidente Duhalde potrebbe esporre la Chiesa all’accusa di farsi strumentalizzare?
Questo è un momento in cui non si appoggiano le persone, ma le istituzioni. L’anarchia non può governare. Davanti alla gravità della crisi, la Chiesa auspica che si apra il dialogo tra i poteri istituzionali – presidente, potere legislativo e potere giudiziario – e che sia preservato quell’orizzonte democratico e di pace sociale a cui si è arrivati con tante sofferenze. Ma poi non è compito della Chiesa dare ricette.
Come andrà a finire?
Credo nei miracoli. E l’Argentina ha un popolo grande e bello. Queste risorse spirituali che conserva il nostro popolo già sono un principio di miracolo. E sono d’accordo col Manzoni, che dice: «non ho mai trovato che il Signore abbia cominciato un miracolo senza finirlo bene». Io aspetto che finisca bene.
Dalla rivista 30 Giorni 2002, intervista di Gianni Valente
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