Welfare

Bertolé: «Troppi tagli al welfare? Vero, manca la cultura politica dell’investimento sul sociale»

Scout, imprenditore sociale, insegnante, politico: intervistato nel numero di Vita dedicato al #LavoroSociale, Lamberto Bertolé - assessore al Welfare del Comune di Milano - ammette che manca la cultura politica dell'investimento nel sociale. «Il tema, in un momento in cui aumenta la domanda di intervento sociale, è riuscire a mettere a disposizione dei Comuni le risorse necessarie. Ma sono scelte politiche che spettano ai livelli di governo superiori al nostro»

di Redazione

Prima imprenditore sociale, nelle vesti di fondatore e presidente (sino a pochi mesi fa) della cooperativa Arimo (attiva fra le province di Milano e Pavia nel campo dell’educativa per minori fragili e nella formazione), poi insegnante (di filosofia al liceo, in questo momento in aspettativa), quindi politico (nella scorsa legislatura è stato presidente del consiglio comunale per il Partito democratico), dallo scorso 12 ottobre amministratore pubblico nelle vesti di assessore al Welfare e alla Salute del Comune di Milano nella giunta guidata da Giuseppe Sala.
Lamberto Bertolé, classe 1974, un passato da scout di cui va molto orgoglioso, incarna il crocevia fra l’attivismo sociale diventato professione e l’impegno politico di prima fila. L'abbiamo intervistato sul numero di Vita di maggio, intitolato "Lavoro sociale, lavoro da cambiare".

Assessore, come e perché ha scelto di fare il cooperatore sociale?
Avevo 23 anni, studiavo filosofia quando mi sono “imbattuto” in una comunità di accoglienza che si occupava di minori autori di reato. Ho conosciuto il Cesare Beccaria (il carcere minorile di Milano, ndr) e poi le norme che regolamentano le misure alternative alla detenzione. Sono partito come volontario. Poi ho maturato l’idea, insieme ad altri, di aprire io stesso una comunità di accoglienza per adolescenti devianti. Così nel 2003 a due passi dalla Certosa di Pavia è nata la prima comunità educativa per minori di Arimo. Non ci siamo fermati lì ed oggi Arimo conta quattro comunità, una quindicina di alloggi e molti progetti territoriali. All’inizio eravamo in tre, oggi vi lavorano circa cinquanta persone con tanti volontari (tra cui il sottoscritto) e fattura circa 1,7 milioni di euro.

Era il suo “sogno nel cassetto” lavorare nel sociale?
In realtà no. Finita l’università ero combattuto fra il lavoro di ricerca e l’insegnamento (abilitazione che poi ho preso). La scintilla è scoccata dopo, con la “scoperta” delle comunità di accoglienza di cui le dicevo. Tanto che io in comunità, per quasi quattro anni, ci ho anche abitato. In Arimo ho toccato con mano come gli incontri, le relazioni e le opportunità possano fare davvero la differenza nei percorsi di vita delle persone. Non a caso il nostro motto è “sbloccare destini”.

Sono pochi quelli che oggi decidono di fare una scelta come la sua, tanto che si fa sempre più fatica a trovare persone disponibili a lavorare nel sociale. Come lo spiega?
C’è un grosso problema di riconoscimento sociale, prima ancora che economico. Molti, ancora oggi associano la figura dell’operatore sociale a quella del volontario. Mentre si tratta di professionisti. Far passare l’idea poi che la loro sia una funzione fondamentale su cui bisogna investire, anche economicamente, è una sfida culturale decisiva, che le classi dirigenti e le organizzazioni del Terzo settore devono fare insieme. Con l’obiettivo di avere più risorse e di utilizzarle meglio, come prevedono i principi della co-progettazione e della co-programmazione.

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