Economia

Borzaga: «I 4 problemi della riforma del credito cooperativo e una soluzione»

Il presidente di Euricse ha analizzato quella che poteva essere uno strumento « rendere più forte l’intero sistema del credito cooperativo italiano», ma su cui « il Governo non è riuscito a trovare un punto di equilibrio»

di Carlo Borzaga

Quella del credito cooperativo approvata dal Governo il 10 febbraio poteva essere una buona riforma, ampiamente condivisa e in grado di rendere più forte l’intero sistema del credito cooperativo italiano senza togliere troppa autonomia alle singole banche. Purtroppo però il Governo non è riuscito a trovare un punto di equilibrio convincente tra due diverse necessità: rendere il sistema più forte e coeso senza ledere eccessivamente la libertà di impresa costringendo tutte le banche a far parte di un unico gruppo.

Questo equilibrio poteva essere garantito in diversi modi: imponendo una soglia minima di capitale per la costituzione di un gruppo non eccessivamente elevata (intorno ai 600 milioni di euro), oppure consentendo alle banche di credito cooperativo con un patrimonio medio-alto e sufficientemente solide di non aderire a nessun gruppo e continuare a operare in autonomia. Lasciando poi alla responsabilità delle stesse Bcc la scelta tra le diverse opzioni. Il Governo invece ha scelto una soluzione complicata e molto discutibile che sta scontentando praticamente tutti, con la sola eccezione delle poche banche che non erano fin dall'inizio d'accordo con il progetto di riforma e dei loro consulenti. Infatti, consentendo alle banche di credito cooperativo con oltre duecento milioni di patrimonio (chissà poi perché 200 milioni!) di cedere l'attività bancaria ad una spa (del cui patrimonio manterrebbero il controllo), oppure di fondersi con altra banca in forma di spa o popolare o addirittura di trasformarsi semplicemente in una Spa – sul punto il testo del decreto non è del tutto chiaro – con la sola penalizzazione di versare al fisco il 20% del valore delle riserve, il Governo è riuscito ad andare contemporaneamente incontro a quattro ordini di problemi.

1. La demutualizzazione

Innanzitutto ha di fatto modificato la regola, in vigore dal 1946, che nei casi di fusione di cooperative con imprese di forma giuridica diversa, di trasformazione o di liquidazione, l'intero patrimonio che residua dopo la restituzione ai soci del capitale versato non può essere diviso tra i soci, ma deve essere versato ai fondi mutualistici. Non è quindi conforme alla tradizione e alla legislazione vigente la previsione di “multare” le Bcc che intendono utilizzare la via di uscita prevista dal decreto imponendo loro di versare la fisco una percentuale – qualsiasi essa sia – delle riserve indivisibili. Semplicemente perché non sono le riserve la variabile da assumere a riferimento, ma il “patrimonio effettivo”. Così, con questa decisione il Governo avvia, per la prima volta in Italia, un processo di sostanziale demutualizzazione. Esattamente come hanno fatto negli anni ’80 alcuni Governi di destra, tra cui quello di Margaret Thatcher con le Building Society, ottenendo in tutti i casi risultati tutt’altro che lusinghieri.

2. Le spa

In secondo luogo il Governo – in palese contrasto con l’obiettivo dichiarato di formare un gruppo unico a livello nazionale – ha di fatto consentito alle banche di credito cooperativo con almeno 200 milioni di patrimonio, indipendentemente dalla qualità dei loro attivi dalla loro solidità, di continuare ad operare in totale autonomia, con l’unica condizione che l'attività bancaria venga trasferita ad una Spa. Senza peraltro spiegare perché una spa dovrebbe operare meglio di una Banca di credito cooperativo, visto che le banche in forma di spa, soprattutto se di dimensioni medio piccole, non sembrano aver operato in questi anni meglio delle banche di credito cooperativo. Non solo: rendendo possibile la scissione tra la cooperativa e l’attività bancaria sembra che il governo abbia dimenticato quanto sia stata complessa l'operazione, del tutto simile, attuata dagli anni 80 in poi per privatizzare le Casse di Risparmio e le Banche pubbliche attraverso la loro trasformazione in una fondazione detentrice del patrimonio e in una Spa gestore dell’attività bancaria. Meraviglia in particolare che, dopo aver raggiunto di recente un accordo con le fondazioni di origine bancaria per una ulteriore riduzione della loro presenza nelle banche conferitarie, giustificata dalla necessità di migliorare l'efficienza di queste ultime, il governo riproponga la stessa procedura ma con un’anomalia in più: che al posto della fondazione, la proprietà della banca sarà detenuta da una cooperativa ancora ufficialmente di credito, ma che non eserciterà più questa attività. L'ultima cosa di cui si sentiva il bisogno è di avere una fondazione in forma di cooperativa o, viceversa, una cooperativa con funzione di fondazione.

3. La way out

In terzo luogo la procedura che le Bcc che decidessero di uscire dal sistema dovrebbero seguire risulta confusa e lacunosa. Un’operazione di demutualizzazione – destinata necessariamente a decidere chi diventerà proprietario di un’impresa fino ad ora di proprietà collettiva – deve necessariamente indicare come vada valutato il patrimonio effettivo (che, nel caso di una banca, può essere anche significativamente diverso, in genere superiore al valore delle riserve), chi lo debba valutare, chi ne diventerà il legittimo proprietario, e a quali condizioni. Tutte indicazioni che nel decreto non ci sono. E non solo come già ricordato perché si assumono a riferimento le riserve e non il patrimonio effettivo, ma anche perché esso non indica né chi sarà il proprietario del patrimonio né come saranno valorizzate le quote di capitale di cui sono titolari i soci: diventeranno soci della spa in proporzione al capitale sottoscritto? In questo caso però il valore delle azioni – che a questo punto sarebbero vendibili visto che il decreto non dice nulla in merito – sarà commisurato al patrimonio effettivo conferito e quindi potrà risultare anche molto più elevato del loro valore nominale.

4. Il decreto

Infine, il decreto è chiaramente discriminatorio: Bcc diverse solo per dimensione del patrimonio sono sottoposte a regole differenti senza alcuna ragione. Infatti tutte le Bcc con meno di 200 milioni di patrimonio che volessero cedere l’attività o trasformarsi sono comunque tenute a rispettare le regole dell’indivisibilità del patrimonio effettivo e a devolverlo ai fondi mutualistici. Ma il Governo è proprio sicuro che il solo parametro dimensionale giustifichi questa discriminazione? Le regole da seguire non dovrebbero piuttosto essere uguali per tutti i soggetti interessati, piccoli e grandi, amici e nemici?

La soluzione

La questione ora diventa fino a che punto il governo intenderà proseguire su questa strada oppure se, prendendo responsabilmente atto delle critiche mosse, non deciderà di ripensare l'intera questione. Non la riforma nel suo complesso ma il passaggio relativo alla libertà di adesione al gruppo. Le soluzioni possibili sono diverse – da quella di ridurre il capitale necessario alla formazione di un gruppo a quella di consentire alle Bcc con un patrimonio consistente di non aderire a nessun gruppo conservando però lo status di cooperative – ma tutte richiedono che il Governo adotti un atteggiamento meno paternalistico. Lasciando poi alle singole banche e alle loro organizzazioni di rappresentanza la scelta, semmai intervenendo in futuro, anche attraverso l'autorità di vigilanza, per spingere verso la direzione che si dimostrerà più efficiente. Meglio avere più gruppi o qualche banca di credito cooperativo che rimane autonoma, magari solo per qualche tempo, che mettere in discussione il principio della non distribuibilità del patrimonio delle cooperative e creare “mostriciattoli”, cioè istituzioni con obiettivi poco chiari ma con rilevante peso economico soprattutto a livello locale.

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