Giustizia

Carcere, la garante sarda Testa: «La Corte dei Conti ha bacchettato il Governo»

In una relazione i giudici contabili rilevano la situazione critica degli istituti di pena, con una raccomandazione alla politica di evitare ulteriori ritardi e criticità operative. Irene Testa, garante delle persone private della libertà personale della Sardegna: «Un richiamo, non solo per non aver costruito nuovi istituti, ma per non aver neanche messo mano a quelli che già ci sono»

di Ilaria Dioguardi

L’analisi sullo stato di attuazione del “Piano carceri”, a 10 anni dalla conclusione della gestione commissariale, evidenzia situazioni critiche di sovraffollamento carcerario, soprattutto in sei regioni: Lombardia, Puglia, Campania, Lazio, Veneto e Sicilia. È quanto afferma la Corte dei Conti nella relazione Infrastrutture e digitalizzazione: Piano carceri.

Nel documento, di 284 pagine, si legge che, accanto alla necessità legata alla creazione di nuovi posti detentivi, emergono la mancata realizzazione di numerosi interventi e l’urgenza di completare quelli di manutenzione straordinaria già avviati, per migliorare le condizioni ambientali, igienico-sanitarie e di trattamento.

I giudici contabili raccomandano all’amministrazione di predisporre stime realistiche dei costi, accompagnate da una pianificazione efficace delle risorse e dalla definizione di linee guida per le strutture penitenziarie, coerenti con gli standard minimi europei e internazionali. Al nuovo Commissario straordinario la Corte dei Conti chiede di tenere conto delle criticità emerse dall’indagine e di assicurare un attento monitoraggio degli interventi nel rispetto dei cronoprogrammi procedurali e finanziari, per evitare ulteriori ritardi e criticità operative. «È un fatto importante che la Corte dei Conti bacchetta il Governo, il ministro della Giustizia, per essere in forte ritardo rispetto al “Piano carceri”», dice Irene Testa, garante delle persone private della libertà personale della Sardegna.

Testa, perché è importante la relazione della Corte dei Conti?

È significativo questo richiamo perché la Corte dei Conti bacchetta il Governo non solo per non aver costruito nuovi istituti, ma per non aver neanche messo mano a quelli che già ci sono. E sappiamo che l’unica misura finora proposta dal Governo, rispetto a questo, sono stati i container, che sono allo studio del Commissario straordinario, da cui dovrebbero riuscire a ricavare meno di 400 posti, con una spesa enorme: 83mila euro per posto letto.

Non si sa come andranno gestiti, verranno messi in prossimità delle strutture presenti, quindi non negli istituti. Le persone dovranno essere accompagnate dentro gli edifici, con le difficoltà che potranno crearsi con la mancanza di personale che ha dei numeri incredibili. Come si farà, nella pratica, a gestire questi blocchi di container? Creeranno problemi agli agenti di polizia penitenziaria, ma anche agli educatori, alle figure che si dovranno spostare. Poi non si saprà se saranno caldi, freddi, in che misura sarà garantita la sicurezza. Abbiamo anche degli esempi di istituti costruiti con prefabbricati, poco dopo la messa in funzione ci pioveva e ci piove tuttora. Mi pare che sia già chiaro che i container non possono essere la soluzione.

Cosa manca nelle carceri?

Nelle carceri manca tutto, sono strapiene di persone. La Presidente del Consiglio ci ha detto chiaramente che è contraria a qualunque provvedimento deflattivo sul fronte delle carceri. Secondo lei la soluzione è ricavare (e stanno lavorando per questo) 7.500 posti. Innanzitutto di posti ne mancano 16mila. Poi 7.500 posti dove li ricaviamo? In molti istituti, pur di fare spazio alle brande, vengono tolti persino gli armadietti, non si consente ai detenuti neanche di avere un luogo fisico, uno spazio per mettere i propri oggetti personali. Mi pare che le politiche carcerarie, e chi le gestisce, preferiscano pagare risarcimento danni di sentenze e condanne che vengono costantemente messe contro lo Stato Italiano.

Irene Testa davanti al carcere di Uta (Cagliari)

Ci spieghi meglio.

Sono circa 5mila le richieste di risarcimento danni accolte da parte dei detenuti che vivono in condizioni di trattamento disumane e degradanti. La Corte europea dei diritti dell’uomo – Cedu sanziona costantemente l’Italia per questo. Ora c’è la relazione della Corte dei Conti, bisognerà capire fino a quando la lo Stato italiano dovrà pagare per un sistema che dovrebbe riformare e rendere legale, invece mette all’interno di queste strutture persone che avrebbero bisogno di essere indirizzate verso la legalità. Ma questo non si può ottenere se le costringiamo a vivere in luoghi che sono essi stessi illegali.

Diceva, poco fa, che manca lo spazio pure per gli armadietti. Risale a gennaio 2024 la sentenza della Cassazione che ha ribadito il diritto all’affettività in carcere, ma ancora non si svolgono colloqui in intimità. Per mancanza di spazi?

Manca veramente tutto, gli spazi, il personale: gli agenti nelle sezioni sono costretti a fare dei turni incredibili. Quando visito le carceri, se gli istituti hanno diversi blocchi, dove un femminile è distaccato dal maschile, uno dei due è sacrificato. Per esempio, nei femminili che sono separati, è tutto più ridotto: non c’è un’altra infermeria, così come non la faranno nei container distaccati. Le persone devono attraversare i cortili per essere portate.

Non ci si rende conto che in carcere è tutto molto lento. Non ci sono molti infermieri, scarseggiano i medici. Gli istituti, dal punto di vista sanitario, vivono una situazione spaventosa. Ogni due ore c’è una persona che tenta il suicidio, che ingoia le pile, che si taglia. È troppo facile trovare soluzioni, probabilmente suggerite da chi negli istituti ci va sporadicamente. Bisogna vivere tanti giorni e tante ore in carcere per capirne le dinamiche. Da 30 anni si parla di costruire nuove strutture, i tempi per farne di nuove sono molto lunghi, non prima di 10-12 anni si possono vederne realizzate ex novo.

E nel frattempo?

Se ci sono circa 62mila detenuti, quindi quasi 16mila in più rispetto alla capienza, tra un anno quanti ce ne saranno, 70mila? Ogni volta che si è arrivato a un affollamento fino ai 65mila detenuti, si sono presi dei provvedimenti. C’è stato l’indulto nel 2006, in una fase di grande sovraffollamento, c’è stata la liberazione anticipata, voluta dal ministro Alfano. Però ci sarebbero anche altri metodi, per esempio il fatto che in carcere ci sono circa 20mila persone che hanno una pena inferiore ai tre anni e che potrebbero essere divisi, tra domiciliari, misure alternative, comunità. Ci sarebbe molto bisogno di queste comunità, parliamo di una popolazione malata, spesso con gravi disagi dell’umore, che non dovrebbe neanche stare in carcere.

Bisognerebbe accendere un faro sulla sanità in carcere, è una situazione in cui tutti noi siamo in grandi difficoltà perché è legata completamente alle regioni, alle Asl

Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha manifestato la necessità di coinvolgere il mondo delle comunità per ridurre il sovraffollamento degli istituti penitenziari (VITA ne aveva scritto QUI).

Nordio aveva promesso la creazione di un albo con tutte le comunità, che ci vede tutti d’accordo, ma ancora di comunità non ce ne sono. In una sentenza, la Cedu chiede all’Italia che ad un ragazzo che ha fatto ricorso psichiatrico (quindi, che non può stare in carcere), non solo venga pagato il risarcimento, ma che venga dato un posto in una struttura. Questo ragazzo è ancora in carcere. Abbiamo poche comunità per doppia diagnosi, non ci sono i posti. Si tengono in carcere persone dove non dovrebbero stare, la legge impedisce che chi ha una malattia psichiatrica stia dentro un carcere. Ci sono continue violazioni dei diritti umani. È chiaro che, nelle condizioni delle nostre carceri, la pena non potrà mai essere riabilitativa, ma tanto meno rieducativa, non ci sono proprio le possibilità.

Non ci sono possibilità per fare attività perché, come diceva, manca il personale?

In istituti che superano i 500 detenuti non si riesce a realizzare il trattamento, di cui possono usufruire in ogni sezione una ventina, massimo una trentina di persone. Il carcere all’interno viene diviso in sezioni, si riescono a fare attività soprattutto in quelle a trattamento intensificato, dove sono i detenuti che stanno meglio a livello di salute mentale.

Chi sta realmente male, i tossicodipendenti, i malati psichiatrici, gli antisociali, difficilmente vengono portati a fare le attività perché creerebbero problemi a un personale insufficiente e in sofferenza. Sono sacrificati tante ore dentro le celle, ci sono persone che non fanno proprio niente. Se un detenuto ha un disagio psichiatrico, ma anche psicologico, soffre di più stando compresso in pochi metri ad ascoltare le urla degli altri detenuti, i blindi che sbattono, la notizia del compagno che si è suicidato, di un altro che si taglia, di un altro ancora che ruba in cella perché non ha i soldi.

Non si possono soltanto aumentare le pene e fare codici rossi se poi, ad esempio, non c’è nessun tipo di intervento in carcere per i sex offender e per questa tipologia di detenuti che andrebbero seguiti costantemente da équipe, da educatori, da psicologi, da psichiatri in maniera seria: quelle persone, prima o poi, finiranno la pena ed usciranno. Sono scarse le figure a disposizione, in alcune sezioni non c’è neanche lo psicologo. Spesso i fatti di cronaca ci dicono che il reato viene reiterato. Mi pare che abbiamo un sistema che è pronto a esplodere, dove le persone pur di evadere da questi luoghi si levano la vita.

Nell’indagine della Corte dei Conti si legge che si registra «per le regioni Lombardia, Puglia, Campania, Lazio, Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte, una grave situazione di eccedenza della popolazione detenuta rispetto alla disponibilità dei posti regolamentari».

Il sovraffollamento c’è in quasi tutte le regioni, alcune più alcune meno, con dei picchi ovviamente. Avvengono degli sfollamenti da carcere a carcere, appena ci si rende conto che in un istituto c’è meno gente di quella “tollerabile”, neanche regolamentare: non si capisce cosa si intenda per “tollerabile”, si sono inventati questo modo di dire. Ci sono istituti che hanno difficoltà anche a reperire materassi e coperte.

Chi sta realmente male, i tossicodipendenti, i malati psichiatrici, gli antisociali, difficilmente vengono portati a fare le attività perché creerebbero problemi a un personale insufficiente e in sofferenza

In Sardegna la situazione com’è?

Tragica come dappertutto. Non ci sono tassi di sovraffollamento come in altre regioni, però c’è tanta popolazione malata, molti tossicodipendenti, soprattutto a Uta (Cagliari) e a Bancali (Sassari). Si riscontra anche una sorta di isolamento doppio, essendo una regione circondata dal mare. Tutto arriva in ritardo anche sul fronte delle carceri, ad esempio sulla questione sanitaria, che è regionale e funziona a macchia di leopardo.

In Sardegna abbiamo istituti di pena dove non ci sono neanche i dirigenti sanitari. È grave, non avere un dirigente sanitario significa non chiudere le cartelle, quindi non consentire a chi fa le sintesi di poter far uscire i detenuti per mandarli in misura alternativa o liberarli. Spesso i detenuti non riescono ad avere delle sintesi chiuse o non riescono a sottoporsi in tempi rapidi ad interventi chirurgici importanti perché manca un dirigente sanitario. Il personale che c’è non si prende la responsabilità di disporre i permessi per interventi, cure e quant’altro.

Per capire lo stato di salute della popolazione carceraria sarebbe importante partire dai dati, che non si trovano. Ad esempio, il numero degli psicologi in carcere. Ogni regione si occupa degli istituti del proprio territorio, ma poi non vengono aggregati.

Sì, anche a livello regionale è un problema. Per la relazione dell’attività annuale, ho chiesto a tutti gli istituti i dati, ad esempio mancano quelli di Cagliari perché il dirigente sanitario non c’è e l’area sanitaria non me li ha potuti dare. Ho dovuto scrivere al provveditore, alla regione e ancora non mi sono stati forniti. C’è un problema da rilevare: nelle carceri sono pochissime le diagnosi che vengono fatte. Sono dati che non vengono probabilmente forniti anche di proposito dalle asl perché avrebbero la responsabilità di farsi carico all’esterno di tutto il disagio psichiatrico che non può stare in carcere.

Non avere le diagnosi significa catalogare una persona come antisociale, categoria che può stare in carcere. Quando vado negli istituti chiedo: «Quante persone prendono farmaci tipo sedativi, gocce di varia natura?». Spesso mi rispondono che sono l’80%, anche l’84% dei detenuti. Ma i dati dei pazienti psichiatrici sono pochi, capita che siano anche cinque. Mi dicono che quelli sono i puri, cioè gli psicotici. Non ci sono le divisioni per tipologie di disturbi (come bipolari, borderline, che sono tantissimi), la maggior parte sono considerati antisociali.

In carcere è soprattutto nel campo sanitario che non funzionano le cose. Bisognerebbe accendere un faro sulla sanità in carcere, è una situazione in cui tutti noi siamo in grandi difficoltà perché è legata completamente alle regioni, alle Asl. Queste ultime sono completamente staccate dall’amministrazione penitenziaria interna e dalle direzioni. Ci ritroviamo ad avere due gestioni: quella dei direttori, amministrativa e della sicurezza, e quella della sanità che va per conto proprio. Le persone con diagnosi non compatibili con il carcere andrebbero portate nei servizi territoriali di salute mentale, oppure nelle strutture che fanno capo sempre alla sanità, alle Asl, ad esempio quelle a doppia diagnosi, che ci sono anche nel privato.

Vanno ringraziati il Terzo settore, i volontari, i cappellani: se non fosse per loro tantissime persone detenute sarebbero in totale stato di abbandono

Nel numero di marzo di VITA magazine Provate a fare senza abbiamo immaginato un viaggio distopico in un mondo senza Terzo settore. Come sarebbero le carceri italiane senza Terzo settore?

Vanno ringraziati il Terzo settore, i volontari, i cappellani: se non fosse per loro tantissime persone detenute sarebbero in totale stato di abbandono. Ci sono istituti dove le uniche persone che arrivano dall’esterno sono i volontari, queste figure in qualche modo sopperiscono ad ogni mancanza. Spesso sono proprio loro che cercano i vestiti, le scarpe, gli oggetti personali di cui le persone hanno bisogno, soprattutto i tossicodipendenti mandati via da casa, gli stranieri (che sono tantissimi) non hanno niente. A me capita di frequente di andare in carcere e le richieste sono: «Mi può trovare un paio di scarpe? Mi può portare una tuta?».

Foto in apertura di jraffin da Pixabay e, nell’articolo, dell’intervistata

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