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Il caso

Carcere, basta morire «da dimenticati»

Tagli al personale e sovraffollamento hanno reso gli istituti di pena italiani luoghi in cui si può morire nell'indifferenza. Ne abbiamo parlato con Rita Bernardini, ex deputata e presidente di Nessuno Tocchi Caino, da anni impegnata per i diritti dei detenuti e che a Ferragosto visiterà, come da tradizione, un penitenziario: quest'anno quello di Rebibbia a Roma

di Alessio Nisi

Le morti in carcere, i decessi nei luoghi di detenzione in particolare, riguardano tutti. Varcare il cancello di una struttura penitenziaria non vuol dire essere dimenticati: non dovrebbe significare questo. Eppure è successo. Susan John, 42 anni, originaria del Niger, è morta nella sezione femminile della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. Se n’è andata da “invisibile”. Né la direzione né la garante dei detenuti di Torino erano a conoscenza delle difficoltà e dello sciopero della fame, in corso da ben un mese, di Susan: che si è lasciata morire di fame e sete in carcere. Nessuno sapeva. A poche ore dalla morte di Susan John, un’altra detenuta si è tolta la vita nella sezione femminile del carcere di Torino, Azzurra Campari si è impiccata. Due morti che seguono il dramma, sempre a Torino, di Graziana Orlarey, 52 anni, che il 29 giugno si è suicidata a pochi giorni dalla sua scarcerazione per il timore di cosa le sarebbe accaduto una volta libera. Torino: il responsabile sindacale della polizia penitenziaria ha parlato di un carcere che ha assunto le caratteristiche dei gironi danteschi sia per i detenuti sia per il personale, chiamando in causa il crescente sovraffollamento detentivo e la fatiscenza delle infrastrutture.

La responsabilità dello Stato

«Se lo Stato può permettersi di fare quello che fa quotidianamente e che noi che entriamo nelle carceri tocchiamo con mano vuol dire che c’è una sorta di avallo di questi fatti», dice senza troppi di giri di parole Rita Bernardini, già parlamentare, presidente di Nessuno tocchi Caino, da anni in prima linea (con proteste e ripetuti scioperi della fame) per la difesa dei diritti dei detenuti, con un orizzonte chiaro: lo Stato di Diritto, la dignità della persona e la forza delle idee. Partita la carambola della ricerca delle responsabilità, due casi in pochi giorni non sono coincidenze, ci si dimentica che il principale imputato di questa situazione è uno. «Lo Stato ha una responsabilità imposta dai principi costituzionali, come quelli vergati dall’articolo 27», spiega Bernardini, che a Ferragosto, come ogni anno, sarà nelle carceri insieme ai detenuti, «sarò a Rebibbia». 

Rita Bernardini

Solo punizione

In barba ai principi costituzionali, «il carcere sta diventando un luogo di sola punizione. Le persone che entrano non sono aiutate in un percorso che dovrebbe far si che non ricadano nel reato». Non solo queste persone non sono aiutate ma finiscono in un limbo di invisibilità. «Anche nel silenzio assordante dei grandi media, che non ne parlano. Per loro non è rilevante». Eppure, sottolinea Bernardini, «sono casi che hanno un loro peso: queste persone sono nelle mani dello Stato». E nella sua cura. «La pena non deve essere contraria al senso di umanità», cita la ex deputata.

Sovraffollamento e tagli lineari

Ma la realtà ci consegna una situazione assolutamente diversa: fatta di sovraffollamento delle carceri e tagli lineari al personale. «I dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria al 31 luglio dicono che in Italia ci sono 57800 detenuti, con un aumento rispetto al 2022 di 2700 persone, per 47 mila posti, con istituti che in alcuni casi arrivano ad un sovraffollamento con picchi del 200%, mediamente fra il 150 e il 200%». Tutto questo con «pochissimo personale. Per personale parlo di agenti di polizia, ma anche di educatori e psicologi: così l’istituzione non può funzionare». Senza dimenticare poi l’aspetto sanitario della questione. «Al carcere di Bergamo, che abbiamo visitato recentemente», cita ad esempio sempre Bernardini, «su 550 reclusi (ne potrebbe ospitare 310), ben 300 sono tossicodipendenti: il 60% hanno questioni serie di natura psichiatrica e che dovrebbero essere seguite»

Che fare

La prima misura, secondo Bernardini, è ridurre la popolazione detenuta. «Come Nessuno Tocchi Caino abbiamo collaborato alla elaborazione di due proposte di legge di riforma della liberazione anticipata già prevista dal nostro ordinamento». La prima proposta fa sì che si elevino da 45 a 75 i giorni di liberazione anticipata concedibili ogni semestre. Con la seconda si aumentano da 45 a 60 i giorni di liberazione anticipata e, soprattutto, si prevede che la misura sia concessa puntualmente ogni semestre ai detenuti che abbiano un buon comportamento e che ad emanare il provvedimento sia direttamente l’istituto (che conosce il detenuto) e non il magistrato di sorveglianza. «Non dimentichiamo che i magistrati di sorveglianza in Italia sono solo 240 e che devono fare un lavoro immane con piante organiche neppure coperte al 100%: sgravarli di questo compito, sarebbe un bel passo in avanti».

In apertura foto di Marcello Rabozzi da Pixabay; la foto di Rita Bernardini è di Cecilia Fabiano /LaPresse


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