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Caro Bertolaso, non sei a capo di un pronto soccorso

Cosa non funziona più nel modello italiano

di Gregorio Arena (Cittadinanza Attiva)

Non è un caso che il commissario straordinario sia medico. Perché guarda alle vittime come a pazienti impotenti. Come se l’essere vittime di un’emergenza avesse prosciugato tutte le risorse e le capacità di quei cittadini. È un’idea “bipolare” che sta mostrando tutti i suoi limiti
Le vicende che in questo periodo hanno riguardato la Protezione civile dimostrano non tanto e non solo la verità dell’assioma secondo il quale il potere corrompe, ed il potere assoluto corrompe assolutamente, quanto la fragilità di un modello organizzativo.
Da questo punto di vista è un bene che sia scoppiato lo scandalo riguardante le attività della Protezione civile, perché ci costringe ad interrogarci sul modo con cui negli ultimi anni è stato interpretato il concetto stesso di “protezione civile”.
Forse non è un caso che Bertolaso sia un medico. Perché il suo modo di intendere il rapporto della protezione civile con le vittime delle emergenze ricorda molto il modo con cui certi medici interpretano il proprio rapporto con i pazienti. Il paziente ideale, secondo questo genere di medici, è quello che si abbandona totalmente nelle mani di chi lo cura, e Bertolaso riproduce questo schema quando organizza gli interventi della protezione civile per curare le ferite della collettività in occasione di emergenze.
È la logica del pronto soccorso, in cui giocano un ruolo cruciale fattori come l’efficienza dei mezzi, la rapidità di intervento, l’attribuzione ad uno solo di poteri assoluti di scelta su chi, come e con quali modalità intervenire. E infatti la normativa del 1992 che disciplina la Protezione civile prevede che essa possa agire «in deroga ad ogni disposizione vigente» per affrontare le emergenze.
Ma se la logica del “pronto soccorso” viene estesa all’organizzazione dei Mondiali di nuoto, dei Giochi del Mediterraneo, all’esposizione delle spoglie di San Giuseppe da Copertino, ecco che emergono i limiti del modello organizzativo che fa perno sulla figura del commissario straordinario, uno strumento speciale usato per risolvere problemi normali.
Questi limiti però non sono soltanto quelli che sono stati messi in evidenza da chi giustamente critica l’impropria estensione degli interventi del commissario a settori in cui dovrebbe agire l’amministrazione ordinaria, con gli strumenti normali di ogni pubblica amministrazione.
Costoro infatti confrontano due modi di intendere l’amministrazione, entrambi però fondati sul medesimo paradigma, quello bipolare tradizionale che attribuisce sempre e comunque all’amministrazione la tutela dell’interesse generale. E la critica che si è appuntata sulla figura del commissario straordinario ha riguardato quella che potremmo definire la sua “prevaricazione” rispetto al modello ordinario di amministrazione.
Proviamo invece ad uscire dallo schema bipolare usando come riferimento il principio di sussidiarietà ed il nuovo modello di amministrazione condivisa che esso legittima, fondato sulla presenza diffusa di cittadini attivi, responsabili e solidali. Il confronto in questo caso non è più soltanto fra due modelli di amministrazione all’interno del medesimo schema teorico ma fra due modelli di organizzazione sociale fondati su paradigmi antitetici, da un lato quello bipolare, dall’altro quello sussidiario.
E quindi abbiamo da una parte un commissario straordinario, dall’altra una pluralità di soggetti, i cittadini attivi. Da una parte poteri “straordinari”, extra-ordinem, letteralmente fuori dall’ordine, quindi dalla normalità. Dall’altra tanti individui assolutamente normali, senza potere, perché essere cittadini attivi non comporta l’esercizio di alcun potere.
Da una parte la semplificazione insita nel comando, nella decisione assunta e imposta, dall’altra la complessità del confronto, delle decisioni discusse e poi attuate insieme. Da una parte la concentrazione del potere, dall’altra la diffusione delle attività di cura dei beni comuni. Da una parte la ricchezza delle risorse pubbliche, dall’altra la modestia delle risorse personali. Da una parte la temporaneità dell’incarico, dall’altra la permanenza dello status di cittadino.
Sembra quasi un susseguirsi di quelle che Norberto Bobbio definiva «grandi dicotomie». Non è un caso, perché lo schema teorico su cui si fonda la figura del commissario straordinario è identico a quello su cui si fonda il modello tradizionale di amministrazione, portato però alle sue estreme conseguenze quanto a concentrazione del potere e riduzione dei cittadini a meri assistiti.
Il modello organizzativo fondato sul commissario straordinario è insomma agli antipodi rispetto all’idea di cittadinanza attiva, responsabile, solidale che il principio di sussidiarietà legittima e promuove. Per questo se si utilizza il principio di sussidiarietà come chiave di interpretazione della figura del commissario straordinario si vede che i suoi limiti principali non riguardano soltanto il rapporto con gli istituti dell’amministrazione ordinaria, su cui il commissario prevaricherebbe, bensì quello con i cittadini vittime di emergenze. Questi ultimi, ancor più di quanto accada normalmente da parte degli apparati pubblici, vengono dal commissario straordinario considerati come meri destinatari dei propri interventi, non certo come potenziali alleati e tanto meno come protagonisti dell’intervento.
Lo schema definito sopra del “pronto soccorso”, applicato alle emergenze di cui si occupa la Protezione civile, presuppone in sostanza che i cittadini vittime di emergenze si rimettano totalmente nelle mani dei soccorritori, allo stesso modo in cui la vittima di un incidente si affida al medico che la cura. Come se l’essere vittime di un’emergenza avesse prosciugato tutte le risorse e le capacità di quei cittadini.
E questo accade, paradossalmente, nello stesso momento in cui la Protezione civile fa invece grande affidamento sull’abnegazione e le competenze di altri cittadini, cioè i volontari, per portare aiuto ai sinistrati!


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