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Cooperazione & Relazioni internazionali

Caro Bush, hai sbagliato su tutta la linea

L'Etiopia, con il beneplacito della Casa Bianca, pensava di riconquistare Mogadiscio con una "azione lampo". Ma la Somalia si è rivelato un campo minato. L'inferno somalo spiegato da un esperto

di Padre Giulio Albanese

Per qualsiasi giornalista provetto scrivere sulla Somalia di questi tempi è un?impresa ardua ed estenuante. La cronaca è infatti scandita quotidianamente da laconici bollettini di guerra a cui si aggiungono raffiche di comunicati stampa di questa o quella formazione, al punto che la situazione interna pare soggetta a continui capovolgimenti. In effetti, la matassa degli interessi e degli intrighi ?ad intra? e ?ad extra? è alquanto aggrovigliata. Com?è nascosto, d?altronde, il bandolo di una possibile soluzione negoziale se si considerano i principali accadimenti dal dicembre 2006 ad oggi: l?ingresso in campo delle truppe etiopiche, la fuga delle Corti islamiche da Mogadiscio, l?acuirsi della frammentazione sociale in clan e sottoclan, unitamente ai livori che serpeggiano nell?ambito delle varie formazioni armate, poco importa se lealiste o antigovernative. La benedizione di Washington Intanto, mentre scriviamo, secondo quanto riferito da fonti delle Nazioni Unite, prosegue incessantemente l?esodo dei civili dalla capitale somala: quasi 100mila nell?arco degli ultimi due mesi. La sensazione, in effetti, è che questo Paese sia caduto dalla padella alla brace da quando il leader etiopico Meles Zenawi ha ordinato al proprio esercito di conquistare Mogadiscio con l?intento di legittimare il governo di transizione somalo, internazionalmente riconosciuto, del premier Ali Mohammed Gedi. Un esecutivo, il suo, che, fino a pochi mesi fa, controllava a malapena pochi scampoli di territorio, attorno alla città di Baidoa. Un?operazione militare, quella ideata da Zenawi con l?inopportuna benedizione di Washington, che in un primo momento, stando agli euforici proclami della propaganda etiopica, sembrava avesse sortito l?effetto desiderato, quello cioè di cacciare, una volta per tutte, dalla capitale somala le milizie islamiche fautrici della sharìa. Sta di fatto che quella che doveva essere una ?azione lampo? – per inciso, l?antagonismo tra Etiopia e Somalia è una vecchia storia che affonda le radici nel passato – si è risolta in un?imbarazzante occupazione che rischia di trasformarsi in una vera e propria trappola per l?improvvido straniero. Ad esempio, sembra essere difficilmente praticabile il piano etiopico che prevedeva rastrellamenti a tappeto con i carri armati in azione con ?fuoco ad alzo zero?, la cosiddetta ?spallata finale? contro chiunque osteggiasse la politica del governo di Gedi. Premesso che le bande armate che fanno disastri nella capitale somala non sono solo di matrice jihadista, a Mogadiscio il delirio è tale che per sbarcare il lunario basta impugnare un?arma per dettare legge; e allora ogni giorno si assiste ad una sporulazione di gruppuscoli che hanno fatto del banditismo e dello sciacallaggio il loro scopo di vita. A questo riguardo è bene rammentare che la Somalia è praticamente senza Stato dal 1991, da quando cioè venne rovesciato il regime del dittatore Siad Barre. Sono dunque sedici anni che il Paese è allo sbando e soprattutto i giovani sono quelli maggiormente penalizzati; cresciuti in un clima culturale di piena anarchia, senza particolari riferimenti etici se non quelli legati all?arte di arrangiarsi, per esempio imbracciando un kalashnikov. A questo punto l?unica soluzione ragionevole è rappresentata da una tregua condivisa da tutti, in vista dell?avvio di un fattivo processo di riconciliazione nazionale che veda riunite attorno al tavolo tutte le componenti sociali e politiche. Purtroppo la maggioranza degli osservatori ritiene che la volontà politica di cessare le ostilità non sia sufficientemente maturata negli animi dei contendenti; tra la rigidità del governo di transizione, i dubbi tattici e strategici dell?Etiopia, e la ripresa di lena degli insorti che hanno verificato sul campo di poter resistere alle preponderanti forze di Addis Abeba, e ai loro bombardamenti da terra e da cielo. La questioni delle Corti islamiche Nel frattempo, per chi non lo sapesse, è sbarcato in Somalia il primo scaglione di un fantomatico contingente di pace africano che prevede l?impiego di 8mila uomini. Ma al momento l?Uganda resta l?unico Paese ad avere finora fornito truppe per una missione di peacekeeping che non pare assolutamente praticabile, almeno allo stato attuale dei fatti. E sì perché gli ugandesi sul campo sono solo 1.200, una specie di ?armata Brancaleone? che rischia di trasformarsi in una sparuta forza d?interposizione sotto il fuoco incrociato degli opposti schieramenti. E come se non bastasse, pare certo il rinvio al 26 maggio della Conferenza di pace per la Somalia che, in un primo momento, era stata indetta a Mogadiscio per il 16 aprile. Il problema rimane sempre lo stesso: il presidente Abdullai Yusuf e più in generale il governo di transizione, non vogliono saperne di avere attorno al tavolo i rappresentanti delle Corti islamiche. E mentre a Mogadiscio non si finisce mai di seppellire i morti – sono centinaia se si considera che a detta della Croce Rossa gli scontri di marzo sono stati i peggiori degli ultimi 15 anni – «la diplomazia internazionale si muove a rilento trascinata da una locomotiva che sbuffa come una caffettiera», ha denunciato un diplomatico accreditato a Nairobi riferendosi alle iniziative messe a punto dal gruppo di contatto internazionale di cui fanno parte l?Unione Europea (presidenza e Commissione), Italia, Gran Bretagna, Norvegia, Svezia, Tanzania, Usa, Unione Africana e Lega Araba. Ma la verità, triste doverlo ammettere, è una sola: e che cioè della Somalia sembra, per puro calcolo politico, non interessare nulla a nessuno. Anche se poi in effetti quanto sta accadendo è la risultante di opposti interessi strategici legati alla geopolitica del Corno d?Africa, linea di faglia tra Oriente e Occidente.


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