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Cartellino rosso per chi va male a scuola

"Se vai male a scuola, non ti convoco": suona così la scelta della USD Vanchiglia di Torino, che ha chiesto ai suoi tesserati di presentare la pagella del primo quadrimestre. Silvio Premoli, autore di "Pedagogia a bordo campo": «Bene ad avere attenzione al ragazzo nella sua interezza, ma sport e scuola sono due cose distinte: è importante che chi fa fatica a scuola abbia un ambito in cui si senta valorizzato»

di Sara De Carli

Come diceva il maestro Matteo Dalla Riva: “Prima uomini e poi calciatori”. Sulla propria pagina Facebook l’USD Vanchiglia 1915 accompagna così l’articolo del Corriere della Sera – cronaca di Torino che racconta di come la società, alla fine del primo quadrimestre, abbia chiesto di visionare la pagella dei suoi giocatori, riservandosi eventualmente di non convocare chi abbia insufficienze, in particolare in condotta. L’obiettivo dichiarato della società è quello di conoscere meglio il bambino/ragazzo ed «essere di supporto nel correggere gli aspetti comportamentali evidenziati a scuola». Alla guida del Vanchiglia c’è Vincenzo Manzo, ex calciatore, allenatore-educatore che ha giocato un ruolo determinante sulla crescita di più di un calciatore “insofferente” alla scuola.

Il dibattito è già montato, tra chi plaude alla decisione, chi è incredulo (“Sì certo, voglio vedere se hanno un “Maradona” insufficiente, se non gioca”) e chi trova l’idea assolutamente diseducativa (“Lo trovo un grandissimo errore. A volte lo sport è un riscatto per chi ha problemi a scuola”). «Da anni si discute sul valore non formativo del voto e ora si pensa che quel numero potrà decidere se farti accedere o meno ad attività sportive. Suona peggio di un'onta», commenta ad esempio il dirigente scolastico Alfonso D’Ambrosio sulla sua pagina Facebook. «Nella scuola che dirigo abbiamo ragazzi difficili, che rischiano di abbandonare la scuola e la prima cosa che facciamo è quella di fargli fare sport. Lo sport come liberazione. Non gli chiediamo se hanno avuto brutti voti». Silvio Premoli è associato di Pedagogia generale e sociale all’Università Cattolica di Milano. Insegna pedagogia anche a Scienze motorie e dello sport e nel 2022 ha curato il volume “Pedagogia a bordo campo”.

Professore, che ne pensa della scelta della Vanchiglia e del dibattito che ha generato?

Comincerei con l’osservare che, come spesso accade, nel commentare la notizia e nel prendere posizione ci si è forse discostati un po’ da quello che la società ha detto. Nessuno ha detto – mi pare – che chi ha 4 non gioca, mentre nei commenti ragioniamo come se avessero detto quello.

Quali sono i punti di attenzione che vede?

Da un lato dobbiamo stare attenti che lo sport non venga “vietato” a chi non ha un buon rendimento scolastico o usato come “ricatto”, per due ragioni: uno perché lo sport è un dispositivo che non è di per sé educativo, anche se può avere una enorme valenza educativa e due perché soprattutto in alcune fasi della vita, in cui uno per mille ragioni può fare fatica a scuola, avere un ambito in cui “sentirsi capaci” è fondamentale. Tant’è che ci diciamo sempre che nel contrasto alla dispersione scolastica l’alleanza con lo sport è importantissima.

Che significa che dobbiamo ricordarci che lo sport non è di per sé un dispositivo educativo?

Che lo sport nasce per giocare, per sfidarsi, per divertirsi. Non è un dispositivo educativo di per sé, lo diventa quando ci si mette dentro un’attenzione educativa. Qui rimando al libro di Raffaele Mantegazza, Con la maglia numero sette, sempre attuale, che parla di proprio delle valenze educative dello sport, su cui spesso la pedagogica accademica non ha avuto attenzione. In campo conta vincere, è inutile far finta che non sia così: è logico, se no non giochiamo nemmeno. Il problema è quando conta solo vincere. Quel che voglio dire è che è importante ricordarsi che scuola e sport sono due mondi distinti e che anche lo sport ha un suo valore.

Ma il Vanchiglia fa bene o no a interessarsi anche della situazione scolastica dei ragazzi?

Mi pare un messaggio di attenzione. Qui stiamo parlando di sport dilettantistico di alto livello e l’intenzione mi pare sia quella di dire che “non siamo una fabbrica di calciatori professionisti”, di ricordare a tutti che probabilmente in questo percorso qualcuno diventerà un professionista ma la maggior parte no e di conseguenza ricordare a tutti i soggetti – ragazzi, famiglie, allenatori – che non si può sacrificare tutto sull’altare dello sport. Mi sembra un bel segnale, perché nello sport giovanile di eccellenza di solito accade proprio il contrario, cioè che non interessa niente altro della vita del ragazzo che non sia il suo rendimento in campo e la sua vittoria. Mi ha colpito anche il passaggio in cui il direttore sportivo dice che l’intelligenza scolastica è fondamentale per diventare buoni calciatori: è un’idea interessante da passare ai ragazzi. C’è il talento, ma salvo pochissime eccezioni poi è necessaria un’applicazione del talento che passa anche dall’intelligenza scolastica. Insomma, io non ho visto “se hai 4 non ti convoco”. Mi sembra un’attenzione al ragazzo nella sua interezza. Ecco, se c’è equilibrio, senza rigidi automatismi, ha un suo senso.

In un passaggio la società sembra dire di aver fatto questa scelta anche perché tanti genitori si lamentano di “non essere ascoltati” dai figli e cercano una sponda nell’allenatore. “Ci parli lei…”

È una cosa da valorizzare. Io lo vedo con i miei studenti di Scienze Motorie: sono diversi da quelli di Scienze della Formazione o di Scienze dell’Educazione, sono più “frizzanti”, ma quando dico “basta” si fermano tutti. Sono quasi tutti sportivi e hanno un allenamento a stare dentro la regola. Chi fa sport ha un rapporto con la norma diverso, perché la norma nello sport è un dispositivo facilitante: se vuoi giocare, devi stare alle regole. Chi ha acquisito questo valore della norma, poi lo trasferisce anche in altri contesti. Quindi sì, la capacità di farsi ascoltare di un allenatore è diversa da quella di un genitore o di un insegnante, perché la famiglia e la scuola non hanno il dispositivo della norma come elemento facilitante.

Hai preso un brutto voto, non vai a calcio. A volte lo diciamo anche noi genitori. Pedagogicamente è giusto o sbagliato?

L’ho detto anche io ai mieti figli a volte. Non c’è una risposta univoca, va vista la situazione. Come è maturato quel voto? Ci sto provando, mi sto impegnando, ma vado male? O gioco alla PS tutto il pomeriggio? È evidente che è diverso. Non è una cosa folle, ma dentro un dialogo, una lettura della situazione. Facendo attenzione a non togliere quella che magari è l’unica valvola di sfogo o motivo di gratificazione.

Da più parti si lamenta questa sorta di ossessione della scuola per il voto e per la valutazione e di ragazzini che si sentono ingabbiati nel voto e che hanno maturato un’ansia da prestazione rispetto ai voti.

Io sono in gran parte d’accordo con la critica al voto ma in realtà i voti potrebbero anche funzionare dentro una scuola inclusiva, capace di coinvolgere, di far capire quanto è bello imparare, una scuola attenta a non usare il proprio potere per la sopraffazione dei ragazzi. In una scuola così, capace di tenere insieme l’aspetto delle discipline e quello educativo, mettere dei voti sarebbe un non-problema. Il punto è che dentro una scuola che ha tutte le problematiche che sappiamo e che spesso non riesce a vedere i bambino per intero, ma è interessata solo al rendimento, anche il voto è spia di qualcosa che non funziona. Se togliessimo i voti ma senza cambiare la scuola, non credo che i ragazzi ci guadagnerebbero qualcosa. Preferisco tenere i voti ma cambiare la scuola, cominciando ad avere un’attenzione diversa nella formazione degli insegnanti. Tantissimi insegnanti che hanno questa attenzione educativa, raccontano poi l’enorme fatica che fanno a lavorare insieme a colleghi che non sono per nulla interessati a questi aspetti.

L’allenatore come educatore: lo diciamo tutti, lo scriviamo nei progetti ma nella realtà a che punto siamo con la “pedagogia a bordo campo”?

Parto di nuovo dai miei studenti: tutti ovviamente fanno sport e molti fanno già anche gli allenatori ma quasi nessuno ha consapevolezza degli aspetti formativi ed educativi di quel ruolo. In molti si chiedono perché il loro percorso universitario all’inizio abbia proprio la pedagogia. Però c’è grande attenzione. Nel primo semestre, il primo anno, li faccio lavorare molto sulla loro autobiografia e spessissimo così diventa evidente di quanto nella loro esperienza la figura di un allenatore abbia pesato, in positivo o in negativo, perché ci sono stati episodi di sopraffazione o di violenza oppure di chi ti ha spinto a superare i tuoi limiti e a credere in te stesso. Anche come allenatori, nella loro pur breve esperienza, si accorgono di come abbiano fatto già piccoli interventi educativi. Penso si possa fare molto di più perché se gli aspetti educativi dell’allenatore non sono il primo pensiero di chi ha scelto di fare un percorso formativo importante come quello universitario, lo sarà in line adi massima ancora meno in chi arriva ad allenare senza un percorso formativo alle spalle, in chi fa un altro lavoro e generosamente si mette a disposizione. Questo obiettivamente è un tema.

Che ne pensa del susseguirsi di denunce di violenze, soprattutto psicologiche, nello sport?

Finalmente. Fin da ragazzo ho sentito storie di violenza psicologica nello sport e molte testimonianze le ho raccolte dai giovani in università. Senza criminalizzare alcuna disciplina, credo che occorra fare un grande lavoro di formazione con i ragazzi rispetto ai loro diritti, su cosa è consentito ad adulti e coetanei di fare e cosa no, sulle istituzioni a cui possono rivolgersi per chiedere aiuto, sul ome possono essere protettivi verso se stessi ma anche nei confronti dei compagni, con un’assunzione di responsabilità.

Foto Unsplash

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