Attivismo
«Cerco ancora mio fratello disperso e combatto per tutti gli altri migranti scomparsi nel Mediterraneo»
Latifa Oualhazi, tunisina, da 14 anni cerca il fratello Ramzy, scomparso durante una traversata in mare per raggiungere l'Italia. Oggi dirige l'associazione "Mères de disparus", portando avanti la battaglia iniziata della madre. «All’inizio ero isolata, aggressiva, poi quando ho iniziato e ho scoperto tutto il dolore e l’immensità del fenomeno degli scomparsi, pensavo di diventare matta, ma oggi sono cambiata, so che ne vale la pena. Perciò non mi fermerò»

«Mi chiamo Latifa Oualhazi, ho 46 anni, mio fratello si chiama Ramzy ed è disperso dal 1/3/2011. Ramzy è un ragazzo come tanti e dopo il liceo non è riuscito a trovare lavoro. Con un gruppo di coetanei a Tunisi, fra cui il suo migliore amico, si è organizzato per partire». Si presenta così Latifa che oggi dirige l’associazione tunisina Mères de disparus (Madri dei dispersi), portando avanti il lavoro della madre che è ormai affaticata per continuare una battaglia impari. Parla di suo fratello al presente, come se fosse partito un giorno fa e invece sono passati oltre 14 anni.
Arrivata in Italia per partecipare alla nuova marcia di Milano senza frontiere e raccontare la sua storia, nella speranza anche di trovare un segnale, un indizio che rafforzi ulteriormente la sua speranza di ritrovarlo, a capire cosa sia successo durante quel maledetto viaggio. L’abbiamo incontrata insieme a Edda Pando, attivista di Milano senza frontiere in un bar vicino a via Padova.
La notte più buia della vita di Latifa è stata quella del viaggio del fratello, durato 2 ore e 45 minuti e fatto con il telefono collegato al suo perché lei potesse seguirlo e sapere che era arrivato vivo in Italia. Convinta come sua madre, Fatima, che lui sia in qualche prigione segreta perché ha sentito la sua voce e dei suoi amici saliti a bordo di un barcone dire che la polizia italiana stava venendo a prenderli. Perché ha trovato una sua foto che dimostrerebbe il suo arrivo, sebbene sia sbiadita. Perché un’attivista dice di averlo visto, forse, in un centro di detenzione per migranti in Sicilia. Lei ha cercato di fermarlo invano, di convincerlo a non partire in modo illegale.
«Ramzy mi ha detto di avere un sogno: andare in Europa, guadagnare dei soldi per comprare la protesi per nostro padre che aveva perso un piede, aiutare me e la mia famiglia. Mi ha detto: “Perdonami sorella ma io parto”. Eravamo molti complici, gli ho chiesto di restare al telefono con me per sentire cosa accadeva durante la traversata. Ho sentito i ragazzi che pregavano Allah prima di partire per chiedergli protezione e arrivare a destinazione, ho sentito che dicevano di essere stati intercettati dalla polizia italiana, ho sentito le loro voci dire: “Evviva ce l’abbiamo fatta”».
Prima di chiudere la telefonata, Ramzy l’ha rassicurata, garantendole che era andato tutto bene, che l’avrebbe richiamata il giorno dopo. Erano in 22 su quella barca e sono scomparsi nel nulla. Ed è stato così che le famiglie si sono organizzate per capire che fine avevano fatto i loro figli, nipoti, fratelli non solo durante quel viaggio, ma anche in altre traversate durante le quali i passeggeri erano svaniti. Chiedendo informazioni a chi aveva organizzato il viaggio, cercando lo scafista per scoprire che pure lui era scomparso, rivolgendosi alla polizia tunisina, setacciando televisioni e social media per ottenere informazioni e capire dove potessero essere finiti. E da quel giorno, le madri e i parenti dei dispersi non hanno più smesso.
Latifa, sguardo intenso ancora pieno di luce, sembra una donna incrollabile, perciò le abbiamo posto la domanda più difficile. Ossia se pensa che suo fratello sia ancora vivo. «Certo, mio fratello è vivo e sta in Italia. Penso che sia in qualche prigione segreta», racconta a VITA. Davanti al nostro sconcerto, Edda Pando ci spiega che alcune famiglie dopo qualche anno si sono arrese, hanno accettato l’idea che i loro parenti siano annegati ma lei, come tante altre donne e famiglie di migranti, crede che in Italia ci possano essere delle prigioni segrete, come accade in Tunisia, dove le persone spariscono se sono dissidenti e poi perché le immagini dei porti con le forze dell’ordine che accoglievano e accolgono i migranti sono per loro una conferma che i loro cari possano essere detenuti.

L’associazione Merès de disparus è nata per interloquire con le istituzioni, creare una rete informale collegata anche in altri Paesi di partenza di altri migranti con gruppi simili, anche in Camerun. «Ci credo perché ho visto una foto in cui Ramzy era riconoscibile e in ogni caso noi ci consideriamo le madri di tutti i desaparecidos e dobbiamo andare avanti. Io sento che Ramzy è vivo, ne sono certa», afferma con espressione grave. Sebbene dei tanti, troppi desaparecidos nel Mediterraneo, siano stati trovati indizi solo per cinque algerini per i quali è stata aperta una “pratica” nel Comitato per sparizioni forzate delle Nazioni Unite. E al loro appello a Frontex per sapere se ci sia stato un naufragio quel giorno e in tutti gli altri giorni in cui sono scomparsi i migranti che i gruppi di madri e associazioni stanno cercando non c’è mai stata una risposta. E davanti all’abisso del dolore, lei e tante altre famiglie si aggrappano alla speranza che possano essere finiti in un buco nero in Italia.
Latifa collabora anche con Alarm Phone ed è andata in Camerun a conoscere gruppi affini perché la rete delle mamme attiviste cresce davanti alle partenze e alle continue scomparse e naufragi di cui non si sa niente poiché Frontex non condivide le proprie informazioni. E se questa pare una battaglia contro i mulini a vento, lei e le madri dei dispersi su entrambe le sponde del Mediterraneo hanno un obiettivo concreto oltre a continuare a tenere accese le luci sulla tragedia degli scomparsi: creare una fattispecie di reato per chi scompare nel Mediterraneo, così come è stata creata la Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalle sparizioni forzate, adottata dall’Assemblea generale dell’Onu, entrata in vigore il 23 dicembre 2010.
Prima di congedarci, chiediamo a Latifa se oltre a cercare i propri cari, la sua associazione cerca di fermare le stragi nel Mediterraneo, se parla con i giovani per evitare che partano a bordo di un barcone, in balia di trafficanti e delle onde. «Parlo con i ragazzi del mio quartiere a Tunisi, dove si continuano a organizzare nuove traversate. Racconto di mio fratello, dico loro che l’Europa non è paradiso ma serve a poco. Loro sperano in una vita migliore. Mio figlio che si chiama come mio fratello Ramzy ha dieci anni e una grande passione per il calcio. E mi ha già confidato che vorrebbe partire perché immagina che in Tunisia non avrà un futuro. Viviamo sotto una dittatura, persino io sono stata presa di mira e una volta non mi hanno lasciato espatriare per la repressione nei confronti degli attivisti».
E poi cerca di spiegarci che continua a combattere non solo per suo fratello, ma per tutti quelli che continuano a sparire. «Infatti ci chiamiamo le madri degli scomparsi, siamo una grande famiglia che conforta chiunque perda figli e parenti nel Mediterraneo. E se un giorno mi capita di stare ferma, di non fare nulla per questa causa, mi sento persa. All’inizio ero isolata, aggressiva, poi quando ho iniziato e ho scoperto tutto il dolore e l’immensità del fenomeno degli scomparsi, pensavo di diventare matta, ma oggi sono cambiata, so che ne vale la pena. Perciò non mi fermerò». Nel nome di tutti i desaperecidos che sono scomparsi mentre cercavano di affermare il loro diritto a una vita migliore nell’Europa che erige muri e provoca l’aumento dei morti negli abissi del Mediterraneo.
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