Disegnare il terzo settore italiano come il luogo del privilegio fiscale; come, se va bene, un insieme di piccole zone grigie dove le regole non esistono, esistono solo le eccezioni; oppure, se va male, come grandi centrali di affarismo e corruzione. Dall’altra parte inquadrare l’impresa sociale che esce dalla riforma come uno stravolgimento del terzo settore italiano perché orienterà solo business e profitto “senza -come ha scritto il Movimento 5 Stelle alla Camera- che siano stati posti freni alle potenziali operazioni speculative delle imprese sociali”.
“Temendo -hanno aggiunto- che questo modello possa causare l’aumento dei costi nel settore socio-sanitario, il quale a sua volta potrebbe determinare una contrazione dell’offerta verso i cittadini”.
Questa impostazione critica alla riforma che è stata data dal Movimento di Beppe Grillo trova sponde peraltro in altre forze politiche o sociali con sfumature e dettagli diversi. Si tratta di un’operazione pericolosa prima di tutto dal punto di vista culturale: cerca di buttare anche il terzo settore e il volontariato nel calderone del “magna magna” in cui i cittadini disattenti e incazzati ormai riversano tutta l’informazione che gli viene somministrata, senza stare attenti alla necessità di una complessa “raccolta differenziata” di quello che succede in Italia. Eh sì, lo sappiamo, la complessità e fatica, molta fatica. Ma almeno proviamoci.
Il terzo settore è uno spazio economico e sociale animato da persone e come tutte le imprese umane è ricco di cose belle, brutte, miserie e splendori. Grandi visionari e dirigenti da rottamare. Non potrebbe che essere così. Pensare, come fanno molti, che debba essere solamente lo spazio della generosità gratuita, spontanea, che rifiuta qualsiasi valenza e impostazione economica, oltre che fuori dalla realtà è anche sbagliato per tanti motivi che analisti e ricercatori molto più bravi dell’autore di queste righe potranno dimostrare. Non è coi distinguo del “siamo più puri noi perché non manovriamo soldi” che si risolve il problema.
Questo dal lato degli addetti ai lavori. Dal lato del popolo, invece, credere di conoscere il terzo settore italiano leggendo sui giornali le gesta degli amministratori della cooperativa 29 giugno di Roma è limitante oltre che presuntuoso.
La questione decisiva però è un’altra: pensare che il terzo settore italiano -dalla cooperazione sociale anche grande ai circoli che sopravvivono comunque di privilegi- debba sottostare a regole per evitarne degenerazioni è corretto; che la funzione del pubblico sia solamente quello di controllarlo, giudicarlo e sanzionarlo, partendo da un atteggiamento di diffidenza è invece profondamente sbagliato.
Perché il terzo settore è cresciuto molto negli ultimi decenni grazie a molti fattori di merito e di contesto -senza dimenticare l’emersione statistica del fenomeno-, ma la sua crescita qualitativa e quantitativa è ancora una sfida aperta che il pubblico dovrebbe dominare e promuovere nel contesto di cambiamenti legati al welfare in senso molto ampio che vive il Paese.
Guardare al terzo settore con le lenti dell’Antitrust -che poi in sede europea la questione è tutt’altro che spaccata con l’accetta come vorrebbe l’Antitrust italiana- è un’operazione limitante proprio dal punto di vista di conoscenza della realtà.
Senza entrare nello specifico del sistema di controllo affidato al ministero del Lavoro -dovrà essere valutato per come verrà concretizzato e funzionerà- emergono però alcune considerazioni che L’involontario continuerà, con l’aiuto spero di tutta la sua rete, a sviluppare nei prossimi mesi: il famoso e ormai anche abusato “grano dal loglio” deve essere separato prima di tutto dal terzo settore stesso che non può continuare a far finta di nulla e deve misurarsi seriamente e senza paure su molti fronti, ad iniziare dalla trasparenza, dalla misurazione dell’impatto sociale delle proprie attività, dalla capacità di rendicontazione, dall’efficienza del suo operare, dalle economie create etc.
La creazione -o meglio la ricreazione- di un’authority era necessaria, proprio nei termini di Agenzia di controllo e promozione che potesse misurare e orientare l’attività del terzo settore su terreni certi e “puliti”, nonché lavorare seriamente a creare gli anticorpi per la perdita di fiducia in esso che comunque nella popolazione, complici gli scandali, esiste. Le cause per cui questa non sia stata fatta sono note a tutti e dal punto di vista governativo sono anche condivisibili.
Ma non si chiude così la partita: il tema resta scottante e farselo prendere in mano da opinionisti di giornali scandalistici, dall’antitrust o dai grillini è sbagliato da parte del terzo settore (e nello specifico da parte dei soggetti più influenti economicamente e culturalmente). Serve più visione e coraggio, serve dimostrare sul campo che il terzo settore non è quello che si butta sulla gestione dei problemi soprattutto se ci sono soldi, molti soldi -che poi, tra l’altro pare che sia prerogativa anche di alcune centrali importanti del volontariato…-. Ma è quello che il grano dal loglio lo separa da solo nel suo meccanismo di creazione di opportunità, lavoro, inclusione, benessere, economia e solidarietà. Serve non avere paura di misurarsi né di comunicarsi.
Non è coi sermoni che si risolve il problema -e anche questo post può tranquillamente essere annoverato nella categoria, non ci offediamo-, ma non avendo paura di essere trasparenti e misurarsi. Insomma il grano dal loglio separiamolo all’inizio, che alla fine è sconveniente.
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