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Cina Globale: Dopo il caso Angola qualcosa cambierà?

Un mega finanziamento senza nessuna richiesta di garanzia. Le ong hanno lanciato l’allarme. E Pechino sembra essersi resa conto che quella è una strada senza uscita... di Silvia Scopelliti

di Redazione

Il 2005 è stato l?anno della Cina. E basta sfogliare i giornali per rendersi conto che anche il 2006 – anno del Cane, nell?oroscopo cinese – non sarà da meno: la nota casa che ha inventato gli orologi prêtà-porter ha appena lanciato un modello?rosso, manco a dirlo – per celebrare l?evento. È la globalizzazione, si dirà. Ma cosa succede se la Cina diventa ?global??

Angolagate, caso esemplare

Le imprese cinesi investono sempre di più all?estero, andando poco per il sottile. In ritardo nell?accaparramento delle risorse naturali, la Cina si è avvicinata agli Stati canaglia, a quei Paesi cioè che, per ragioni ideologiche o politiche, sono sulla lista nera della Banca mondiale. E in cui i controlli sono minori.
Per rendere l?idea: in Angola lo scorso anno Pechino ha offerto oltre due miliardi di dollari al governo di quel paese, senza chiedere alcuna garanzia (l?Angola è tra i primi dieci paesi al mondo per corruzione nella classifica di Transparency International). E soprattutto facendo saltare le negoziazioni con il Fondo monetario internazionale.

Invano Global Witness ha protestato con la Banca mondiale affinché si rendesse noto a quale prezzo era stata accettata l?offerta di Pechino. Oltre il 70% dei contratti in Angola è in mano a imprese cinesi, che applicano standard di trasparenza più bassi: difficile arginare la corruzione. Sono le stesse ong locali a denunciare che gran parte di quel denaro andrà ad alimentare la corruzione politica, in vista delle elezioni del 2006.
Grandi infrastrutture, costruzioni, petrolio: sono questi i settori in cui operano oggi le imprese cinesi all?estero, in Africa come in America Latina. Nessuna di queste attività contribuisce però allo sviluppo locale, perché la manodopera utilizzata è cinese: centinaia di migliaia di operai che finiscono, specie in Africa, col privare un continente giovane della possibilità di partecipare al proprio sviluppo.

Tenere sotto pressione

«La Cina», ricorda Diarmid O?Sullivan di Global Witness, «ha un disperato bisogno di risorse per sostenere la propria crescita industriale e allo stesso tempo desidera apparire rispettabile davanti alla comunità internazionale. Noi speriamo che aderisca all?Eiti, l?iniziativa per la trasparenza nell?industria estrattiva, che mira a limitarne l?impatto sulle popolazioni locali». «Come ong», prosegue O?Sullivan, «possiamo convincere il governo di Pechino che il buon governo nei Paesi in cui opera sono importanti anche per i propri interessi».

La globalizzazione è un dato acquisito: i movimenti no global si chiedono cosa fare da grandi, gli incontri del World Economic Forum si svolgono senza tafferugli, le imprese occidentali vedono oramai nei mercati di Cina e India più un?opportunità che una minaccia. Allo stesso tempo però «della Cina che esporta sviluppo economico», sostiene Amnesty International, «non si parla abbastanza. La situazione disastrosa sul piano dei diritti umani in Cina limita le ong che devono difendere il proprio ruolo nei rapporti con le autorità locali. Inutile pensare che Hong Kong, dove l?influenza occidentale è maggiore, possa agevolare il cambiamento».

Cina sul doppio binario

Intanto in Cina si registrano piccoli cambiamenti: l?ingresso nel Wto ha avuto un costo, e la lotta alla corruzione è uno di questi. Transparency International affianca le autorità di Pechino e si dice ottimista. «Il governo cinese», dichiara Peter Rooke, responsabile dei programmi per la regione, «sta prendendo la lotta alla corruzione, inclusa quella all?estero, molto seriamente». Le imprese cinesi sono però ancora lontane dagli standard moderni: molte sono ancora prive di consigli di amministrazioni, la dipendenza dal potere politico o dallo Stato, spesso azionista, è ancora eccessiva; per non parlare della trasparenza, del tutto insufficiente.

Nell?era dell?accesso globale anche per Pechino è sempre più difficile occultare notizie sgradite, come nel caso degli incidenti ambientali che si susseguono con allarmante frequenza. Se il web non ferma l?(auto)censura, l?attenzione all?ambiente diventa una leva d?immagine, e governo e imprese iniziano ad occuparsi di salute e sicurezza: troppo poco per parlare di responsabilità sociale, ma un inizio.
Le piccole associazioni e i movimenti che nascono a livello locale non hanno vita facile, ma sono il segno di una nuova coscienza civica. Hu Angang, economista dell?università di Pechino, prevede che la Cina creerà 80 milioni di posti di lavoro nel mondo nei prossimi cinque anni. Se tutto ciò avverrà sulla pelle dei più deboli, non è ancora chiaro.

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