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Cooperazione & Relazioni internazionali

Coopi: il Forum? Un’occasione mancata

«A Milano si è discusso più del passato (e delle occasioni mancate) che del futuro. E al mondo che cambia velocemente non sappiamo dare ancora risposte». L'intervento di Claudio Ceravolo

di Claudio Ceravolo

Un primo risultato il Ministro Riccardi certamente l’ha ottenuto: si ricomincia a parlare di cooperazione allo sviluppo in un Paese che sembrava avere oramai cancellato quarant’anni di impegno e di solidarietà.
Ma come avviene spesso nel nostro Paese, ancora una volta abbiamo limitato il dibattito a un’ottica “casalinga”: il futuro della cooperazione italiana, la riforma della Legge 49, il taglio dei finanziamenti alle nostre ONG, la perdita di ruolo dell’Italia nelle agenzie internazionali.
Tutti problemi enormi e di cui è bene finalmente parlare. Ma bisogna anche saper guardare fuori dai nostri orizzonti.
Non c’è convegno in cui non si dica che la cooperazione internazionale in questi anni è radicalmente mutata: si parla dell’affermarsi della cooperazione Sud Sud, si ricorda l’emergere di donatori privati e delle ONG del Sud del mondo. Ma questi elementi, la cui esistenza è tranquillamente ammessa da tutti, ci stanno spingendo ad immaginare modelli diversi di cooperazione, oppure siamo ancora legati alle modalità con cui operavamo 20 anni fa? A me personalmente pare che mentre nelle grandi agenzie europee si rifletta su questi argomenti e si cerchino delle risposte, da noi la riflessione sia ancora acerba.

Nel mondo sempre più attori si affacciano all’economia globale e di anno in anno si sta intensificando la cooperazione Sud-Sud.
Ma mentre per noi cooperazione è sinonimo di aiuto, la cooperazione Sud- Sud ha una netta impronta di tipo economico – mercantile.
I paesi emergenti (BRICS e non solo) denotano una fame insaziabile di petrolio, minerali e terreni agricoli, di cui hanno bisogno per mantenere la crescita e nutrire le popolazioni. Si rivolgono soprattutto all’Africa, che continua a dipendere dagli aiuti esterni, benché il continente disponga di enormi risorse.
Divenuti donatori, i paesi emergenti seguono approcci diversi rispetto alle norme fissate dal Comitato di aiuto allo sviluppo dell’OCSE (CAS – DAC; vedi www.oecd.org/dac/index.xml ).
Praticano una specie di scambio basato sul principio «win win», puntando ad una situazione vantaggiosa per tutti.     Si parla spesso della Cina che concede ai Paesi africani prestiti a tassi preferenziali per finanziare la costruzione di infrastrutture (strade, ferrovie, dighe…) attraverso imprese cinesi. In cambio, i paesi partner si impegnano a garantire alla Cina l’approvvigionamento di materie prime o la cessione delle superfici agricole. Questa pratica non è limitata alla Cina, tutt’altro, si sta diffondendo velocemente alle diverse forme di cooperazione Sud-Sud ed è generalmente accompagnato dal principio dell’astenersi dal porre domande sulla politica interna del Paese beneficiario, contrariamente ai donatori tradizionali che subordinavano il loro aiuto ai progressi compiuti in materia di buongoverno.
Ma non si creda che questo approccio sia ben gradito solo ai regimi dispotici e corrotti che non vogliono ingerenze in materia dei diritti umani. Ho molti amici africani, né dittatori né corrotti, che mi dicono apertamente di preferire i contratti sottoscritti con la Cina, chiari e trasparenti, agli impegni assunti coi paesi europei, apparentemente disinteressati ma che spesso celano opacità.
Quindi serve a poco dare un giudizio moralistico negativo sulle cooperazioni “degli altri”, mentre è molto più urgente riflettere seriamente sulla non condizionalità dei nostri progetti di aiuto.

Un altro fattore emergente è l’esplosione dell’aiuto privato. Innumerevoli associazioni sono state costituite a Nord per sostenere i paesi meno ricchi. Miliardari come Bill Gates o Warren Buffet hanno messo in piedi fondazioni filantropiche e anche diverse imprese stanno destinando dei fondi per gli aiuti. Il giudizio che ne diamo non può che essere positivo e cerchiamo per quanto possibile di diffondere sempre più la Responsabilità Sociale d’Impresa nelle attività internazionali.  Però questi attori privati spesso intervengono con modalità e tempi che non sono quelli “tradizionali” della nostra cooperazione i cui tempi sono infatti spesso incompatibili con le lungaggini ministeriali. Le loro modalità d’intervento sono nettamente più orientate ai risultati che non al rispetto delle procedure, che ancora oggi costituisce il primo parametro su cui vengono valutati i nostri interventi.


Di conseguenza, ci viene richiesto un cambiamento nelle modalità di approccio a cui pochi di noi sono preparati.
Discorso analogo vale per i rapporti con le ONG del Sud del Mondo. Molte di esse sono nate proprio sul nostro impulso, o sono state aiutate a muovere i primi passi. Oggi spesso sono viste come pericolose concorrenti, pronte a sottrarre le già magre risorse alle ONG del Nord, e favorite dal fatto di “giocare in casa”.  Dobbiamo riuscire a trovare dei meccanismi “win win” che sappiano valorizzare da una parte la maggiore esperienza e professionalità delle ONG del Nord, dall’altra il forte radicamento delle ONG del Sud.  Qualche buona pratica si vede, specialmente in America Latina, ma mi sembra che ci sia ancora molto da lavorare. In caso contrario, inevitabilmente anno dopo anno le ONG “locali” occuperanno tutti gli spazi e le ONG “storiche” si estingueranno. Una evoluzione questa che potrebbe anche essere positiva (da sempre diciamo che lavoriamo per poterci un giorno ritirare e lasciare tutte le responsabilità agli omologhi locali…), purchè non venga disperso il patrimonio di conoscenze e la tensione etica delle ONG “storiche”.

Infine vorrei ricordare che ai temi della lotta alla povertà, che pure restano sempre prioritari, si sono aggiunte altre emergenze: il riscaldamento climatico, la penuria delle risorse energetiche, l’aumento dei prezzi delle derrate alimentari, la crisi finanziaria. Tutti fenomeni che ostacolano considerevolmente le prospettive di sviluppo dei paesi poveri.
Per attenuarli è importante produrre e preservare i cosiddetti «beni pubblici mondiali» (BPM). Que-sta nozione di beni pubblici ingloba la pace, la sicurezza, la qualità dell’ambiente, il controllo delle
malattie trasmissibili, l’energia sostenibile per tutti e la stabilità finanziaria.
Le grandi agenzie Europee stanno molto riflettendo su come elaborare politiche globali sui BPM e su come implementare nuove strategie sul terreno. Gli approcci tradizionali attraverso progetti e programmi non sono necessariamente adatti a tale scopo e si cerca di inventare nuovi strumenti.
È soprattutto il modello tradizionale donatore-beneficiario ad essere messo in crisi. Quando Nord e Sud del mondo sono chiamati ad affrontare sfide comuni (come il cambiamento climatico), sfide che toccano tutti nel vivo, non si può più pensare alla cooperazione come atto di carità.
Da anni il Direttore dell’Agenzia Francese per lo sviluppo, Jean-Michel Severino annuncia la
scomparsa dell’aiuto pubblico allo sviluppo
(APD) o almeno una sua trasformazione.  Se infatti le politiche relative ai beni pubblici mondiali sono delle preoccupazioni comuni, non ha più senso parlare di “aiuto pubblico”. Meglio parlare di finanziamento delle politiche pubbliche globali
(http://www.ideas4development.org/fr/post/article/de-laide-publique-au-developpement-au-financement-de-politiques-publiques-globales.html )

Questi sono solo alcuni punti, necessariamente solo abbozzati, su cui bisognerebbe ragionare di più.
A Milano, il 1 e 2 ottobre, abbiamo parlato di miserie e splendori della cooperazione italiana, ma non dimentichiamo che al mondo che cambia velocemente bisogna saper dare delle risposte.
Per questo, al Forum della Cooperazione, avremmo dovuto dirci non come avrebbe dovuto essere la cooperazione di ieri, se l’Italia non fosse stata inadempiente, ma come dovrebbe essere la cooperazione di domani.


*Presidente Fondazione COOPI – Cooperazione Internazionale
 


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