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Sanità & Ricerca

Così ho vinto la paura di vivere

«Ho vissuto per anni come una condannata a morte. Poi sono uscita dalla mia prigione e ho capito che sperare era possibile». Il volontariato con Anlaids e una certezza...

di Cristina Giudici

Convivere con il virus Hiv. Per cinque, dieci, a volte anche quindici anni. Imparando a controllare la paura della morte, a dominare l?angoscia della solitudine, il terrore dell?Aids prima e l?ansia causata dalle difficoltà delle terapie, poi. L?universo dei sieropositivi sta cambiando radicalmente. Anche se il farmaco che sconfiggerà il virus Hiv non è ancora stato scoperto, le persone sieropositive hanno imparato ad affrontare la malattia con nuovi strumenti. E oggi, a pieno diritto, possono di nuovo programmare il proprio futuro. Elena Ferrante è una di loro. Ha quasi cinquant?anni e convive con il virus dal 1988. «Esattamente dieci anni fa. E per quel che allora sapevo, la sieropositività e la malattia s?identificavano. Mi ricordo d?averlo letto, allora: ?la malattia non perdona nessuno, e a nessuno concede più di qualche mese di un?agonia tremenda?. Del resto in pochi sapevano cosa fosse l?Aids. Io stessa non avevo neppure pensato di prendere qualche precauzione durante quella strampalata vacanza fuori stagione». Elena da quattro anni è volontaria di Anlaids (Associazione nazionale lotta all?Aids), dove dirige un grupo di auto-aiuto per persone sieropositive, e dove ha istituito un numero verde (0233608683). Comincia così il suo racconto della lunga traversata da un mare di disperazione a un?esistenza serena, quella in convivenza con l?Hiv. «Per cinque anni mi sono dedicata solo a una cosa, ad avere paura. Ero ossessionata dalla fine imminente. Poi la fine non è arrivata e qualcosa è cambiato. Sono uscita dal guscio e ho scoperto che potevo riprogrammare il mio futuro. Certo», prosegue Elena «ho sofferto molto e forse ho fatto anche degli errori, come quando, pensando che sarei morta nel giro di poco tempo, ho detto la verità a mio figlio, senza troppi giri di parole. Aveva solo quattordici anni e l?ho obbligato a crescere in fretta, molto in fretta. Ma pensavo di non avere scelta, perchè avevo paura di morire e dovevo avvisarlo. Oggi mio figlio ha 25 anni e con lui ho un rapporto splendido. Ma spesso mi chiedo se era davvero il caso di rubargli la spensieratezza dei suoi quattordici anni». La malattia di Elena è frutto del caso. Un rapporto che prometteva bene, che forse sembrava amore: un ingegnere, che aveva abitato per anni in Africa e che non ha avuto il coraggio di confessare la propria malattia. Ma Elena non ha avuto tempo per l?odio, la paura per sé e per suo figlio hanno risucchiato tutte le sue energie. «Però a un certo punto capii, grazie ai medici e a una psichiatra, che dovevo smetterla di commiserarmi per la mia leggerezza, che dovevo smetterla di avere paura. Mi ero beccata un virus e dovevo curarmi, ecco tutto». Perché curarsi era davvero possibile. «Lo fanno i diabetici, i malati di cancro, gli ipertesi. E mi aiutarono anche i miei compagni di lavoro, a cui fui costretta a rivelare le mie condizioni di salute per le assenze che si moltiplicavano a causa delle cure. Oggi ci scherziamo, c?è anche chi mi dice ?Dai, passami il virus?, chiedendomi in prestito una biro. Battute così, che mi fanno più bene delle tre pasticche giornaliere che devo prendere». Elena oggi è una donna serena, che ha saputo far crescere i suoi sentimenti. E che si è trasformata in un?ancora di salvezza per gli altri. Un punto di riferimento per chi si trova all?inizio della salita e non sa ancora come dominare il panico. «Sono quattro anni che dirigo questo gruppo di auto-aiuto. Certo, oggi le motivazioni degli incontri sono cambiate: grazie alle nuove cure e ai cocktail di farmaci, c?è meno paura della morte e tutti, prima o poi, imparano a ripensare al loro futuro. Non si può più stare fermi ad aspettare la fine, bisogna pensare alla qualità della vita di ognuno di noi». Al gruppo, ci racconta Elena, arrivano persone sieropositive che, grazie alla condivisione della propria esperienza, imparano anche a dare una risposta a inquietanti interrogativi. Come la maternità impossibile, il senso della solitudine, la paura della discriminazione sociale. «Ho visto troppa gente morire perchè, per paura che gli altri sapessero e per paura della condanna della società, si sono arresi. Alcuni hanno pregato i parenti di mantenere il segreto per sempre. Perciò credo che sia importante essere visibili. Non nel senso di mettere in piazza la propria diversità come una bandiera, ma per imparare ad affrontare con serenità la situazione. Insomma, non credo che la malattia debba diventare un lavoro, ma neanche fare finta che non sia successo niente». Sarà per questo che Elena Ferrante ha deciso di utilizzare la sua esperienza per aiutare chi ha più paura di lei e non ce la fa da sola. «Quando qualcuno viene da me, mi faccio trovare sempre sorridente, calma, molto impegnata e serena. E non perchè sono una santa, ma perchè è importante dimostrare agli altri che si può vivere nonostante la malattia». Non una malattia, ma la Malattia. Silenziosa, ma presente. «Certo, finora ho avuto il vento a favore, per dieci anni sono stata asintomatica e non ho avuto problemi di salute particolari. Da qualche tempo però devo prendere anch?io un cocktail di farmaci e questo mi complica la vita. Si tratta di un impegno costante che va seguito con serietà e puntualità. Inoltre i farmaci provocano anche molti effetti collaterali: è come assumere piccole dosi di chemioterapia ogni giorno. A volte mi scoraggio», ammette Elena, «e penso che prima o poi dovrò pagare il conto. Ma oggi tutti noi sappiamo che la ricerca ha fatto molti passi avanti, sappiamo che dobbiamo sperare che altri farmaci vengano scoperti e sappiamo che se ci si cura bene e in tempo si può trovare un anello che ci leghi al futuro».


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