Medio Oriente

Così Israele prova a tappare la bocca (e a legare le mani) alle ong 

A partire dal 9 marzo 2025, Israele ha imposto nuove e restrittive misure per le ong internazionali che lavorano nei Territori Palestinesi Occupati. Le organizzazioni devono completare una complessa procedura di registrazione entro il 9 settembre. Questo sistema - basato su logiche politiche anziché su dati oggettivi - rischia di espellere le ong, limitando l'assistenza umanitaria ai civili, in palese violazione del diritto internazionale

di Anna Spena

Erano state annunciate dal governo di Israele la prima volta il 9 dicembre del 2024, poi il 9 marzo del 2025 sono entrate in vigore. Parliamo delle nuove disposizioni che impongono rigorose misure e un lungo e complicato iter di registrazione per le ong internazionali, con criteri più stringenti per il rilascio dei visti agli operatori umanitari. E che potrebbero rappresentare un grave attacco all’operatività delle organizzazioni impegnate sul campo nei Territori Palestinesi Occupati. Il “tempo finestra” lasciato dal governo israeliano è agli sgoccioli: entro il 9 settembre tutte le ong dovranno presentare la nuova domanda di registrazione. Nelle linee guida del regolamento c’è scritto che serviranno fino a 45 giorni per valutare le nuove domande di registrazione, o per essere più precisi, di ri-registrazione.

Come funziona questo nuovo iter? E cosa comporta per le ong? Soprattutto: cosa potrebbe significare per la popolazione civile nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania l’assenza delle realtà internazionali?  Lo abbiamo chiesto alla Piattaforma Osc (organizzazioni della società civile) italiane nel Mediterraneo e Medio Oriente. Le nuove regole riguardano tutte le ong internazionali, non solo quelle italiane. Oggi parliamo di circa 180 realtà. 
«Il sistema di registrazione precedente era basato principalmente su regole amministrative», dicono dalla Piattaforma. «Seppure era già un tentativo del governo israeliano di limitare l’operatività delle ong, anche tramite espulsioni, sequestri di equipaggiamenti umanitari e demolizioni di opere costruite dalla cooperazione, comunque minore rispetto a ciò che si prospetta con il nuovo meccanismo».

L’inasprimento dei criteri amministrativi non solo, invece, potrebbe portare all’esclusione di numerose ong dal territorio, ma rischia anche di generare un clima di timore e autocensura tra gli operatori umanitari. Le responsabilità per la registrazione delle ong e per l’approvazione dei visti saranno trasferite dal ministero del Welfare e degli Affari Sociali (MoLSA) a un team interministeriale. Questo team, composto da rappresentanti di diversi settori, si configura come un organismo di controllo centralizzato che potrà operare in modo discrezionale e, potenzialmente, politicizzato. Il team interministeriale comprende rappresentanti del ministero della Difesa (incluso l’Ufficio nazionale per la lotta al finanziamento del terrorismo e il Cogat), che fornisce un approccio orientato alla sicurezza; dell’Autorità per la popolazione e l’immigrazione (Piba), che gestisce questioni legate ai flussi migratori e all’identità degli operatori; del ministero degli Affari Esteri, responsabile della diplomazia e delle relazioni internazionali; del ministero degli insediamenti e delle missioni nazionali, che ha il compito di gestire questioni territoriali e insediative; del servizio di sicurezza generale e polizia, che operano sul campo per garantire l’ordine; del ministero della Sicurezza Nazionale e ministero del Welfare e degli Affari Sociali.

«Il team», spiegano dalla piattaforma, «può mettere dei vincoli o dei veti alla registrazione dell’ong. Complessivamente sono diversi, e comunque non esaustivi, i punti che potrebbero costituire le basi per un diniego. Vanno dalla negazione dell’esistenza dello stato di Israele come stato ebraico e democratico alla promozione delle attività di delegittimazione dello Stato stesso. Più in generale qualsiasi persona appartenente all’organizzazione, o legata all’organizzazione, che magari sui suoi social personali inficia l’immagine di Israele, sostenendo che il governo stia commettendo, ad esempio, crimini di guerra, può essere motivo per vedersi rifiutata la nuova domanda di registrazione. Questo vale anche se si segnalano delle infrazioni dei diritti umani commesse da Israele. Verosimilmente potrebbe configurarsi come motivo di diniego anche la denuncia, fatta da diverse ong, dei crimini commessi da Israele, alla Corte Internazionale di Giustizia. O ancora l’adesione al movimento di boicottaggio dei prodotti israeliani. Insomma: c’è un cappello estremamente politico alla base di questo nuovo iter».

Tutto lo staff locale sarà sottoposto a una forma di “verifica” da parte delle autorità israeliane che stabiliranno se quella persona potrà lavorare o meno con l’organizzazione. «E qui», continuano dalla piattaforma, «diventa ancora più chiaro che il giudizio non si baserà su nessun dato oggettivo, ma solo su considerazioni politiche. Come politico, ripetiamo, è tutto il processo di registrazione messo in piedi».

Il rischio dell’espulsione delle ong, o almeno di parte di esse, dal territorio implicherebbe una riduzione diretta della capacità delle organizzazioni di rispondere tempestivamente a emergenze, con conseguenze gravi per i civili bisognosi di assistenza immediata. Inoltre «agli operatori espatriati non sarebbero più rilasciati i visti di ingresso e le sedi delle ong, così come i conti bancari controllati da Israele, potrebbero essere chiuse nel giro di poche settimane».

Il timore è «che Israele abbia impostato questo sistema di registrazione con l’obiettivo di sfoltire il numero di organizzazioni presenti sul territorio, espellendo quelle che hanno un atteggiamento di denuncia verso un governo che sta commettendo un genocidio. È chiaramente scontato che le ong e la cooperazione internazionale riconoscono pienamente il diritto all’esistenza dello Stato di Israele. La denuncia ai crimini di guerra in corso, perpetrati dal governo israeliano, non ha però niente a che fare con la delegittimazione dello Stato di Israele. I crimini vanno denunciati e fermati. Soprattutto da chi, come noi, lavora sui diritti umani e mette in campo attività di sensibilizzazione in questa direzione».

Le ong hanno chiesto aiuto alle istituzioni ma «la risposta non è stata quella sperata». Il nove settembre è sempre più vicino ed è bene ricordare che il diritto internazionale stabilisce che lo Stato occupante ha l’obbligo di facilitare l’accesso umanitario alle popolazioni in situazioni di conflitto. In particolare, l’articolo 59 della Quarta Convenzione di Ginevra impone che l’occupante debba predisporre e agevolare piani di soccorso. Questo obbligo è volto a garantire che i civili, pur in contesti di conflitto, possano ricevere assistenza indispensabile per la loro sopravvivenza.

Credit foto/AP Photo/Majdi Mohammed/LaPresse

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