Diritti del malato

Cure palliative: perché servono anche nelle demenze

Un'indagine Ipsos condotta per Vidas su caregiver, medici e infermieri mostra che solo un terzo ne ha potuto beneficiare. Vediamo qui perché le cure palliative, anche nell'attuale scarsità di servizi per le persone con demenza, possono aiutare una presa in carico adeguata, appropriatezza delle cure e supporto emotivo e psicologico a tutta la famiglia nei percorsi lunghi della neurodegenerazione dove la partita si gioca ancora quasi sempre al domicilio

di Nicla Panciera

Le cure palliative sono una risorsa ancora troppo poco attivata per le persone con demenza: solo il 35% dei caregiver ha potuto contare su questo servizio per il proprio familiare, nonostante oltre la metà di chi ne ha beneficiato ritenga che sarebbero state utili sia per il malato (57%) che per loro stessi (51%). Chi le ha ricevute riporta benefici in termini di supporto emotivo e psicologico, supporto pratico e nella gestione del tempo.

Cure palliative e presa in carico della persona con demenza sono due mondi ancora poco comunicanti, le prime venendo attivate semmai nelle fasi terminali della malattia neurodegenerativa che ha un lungo decorso. La loro convergenza può fare la differenza, ancor più in uno scenario di scarsità di servizi e di solitudine delle famiglie che convivono con questa terribile malattia.

Inoltre, tra i due ambiti, c’è una «comunanza di valori di riferimento: il mettere la persona al centro del suo proprio percorso nel rispetto dei suoi valori e ponendo sempre massima attenzione alla qualità della vita per il paziente e il suo caregiver» spiega Barbara Rizzi, medico palliativista e direttrice scientifica di Vidas, organizzazione che dal 1982 a oggi ha assistito 45mila persone con malattie inguaribili in fase avanzata direttamente al loro domicilio o presso la struttura Casa Vidas Giovanna Cavazzoni, presentando l’indagine Il peso della cura, una ricca ricerca realizzata da Ipsos sul vissuto di chi assiste persone con demenza, familiari caregiver, medici e infermieri.

Condotta su un campione di 1.400 cittadini e 300 tra medici e infermieri, l’indagine conferma che il bisogno di assistenza per la persona con demenza è in crescita, tendenza in linea con le evidenze epidemiologiche sulla prevalenza delle malattie neurodegenerative nella nostra società che invecchia. Un andamento che emerge anche dai dati di Vidas: «Complessivamente, dal 2019 al 2024 i nostri pazienti colpiti da patologie non oncologiche, tra cui la demenza, sono aumentati in modo significativo, passando dal 11% al 26%» afferma Antonio Benedetti, direttore generale Vidas. «Oggi, 1 paziente su 4 convive con una malattia cronica. Questa evoluzione impone un ripensamento dell’assistenza: servono cure palliative capaci di accompagnare percorsi lunghi e complessi, per rispondere con competenza e umanità ai bisogni di pazienti e caregiver». Dalle risposte fornite dai caregiver emerge che l’approccio palliativista da un lato solleva i familiari dal peso dell’incertezza, dei dubbi, della paura di sbagliare e dell’isolamento, e dall’altro garantisce dignità e qualità di vita ai malati, intervenendo prontamente sui loro bisogni al progredire della neurodegenerazione. «La diagnosi di demenza fa molta paura» conferma Rizzi «Noi sanitari per primi non dobbiamo scappare di fronte a questo ma imparare a tenere sempre aperta la porta al dialogo e all’accoglienza».

I medici e quel gap tra dire e fare

Secondo l’indagine Ipsos, il 68% degli italiani conosce qualcuno affetto da demenza. Si prevede che il numero di persone che ne sono affette quasi triplicherà entro il 2050, passando da 1,2 milioni nel 2019 a oltre 3 milioni. Uno tsunami silenzioso. La maggior parte dei medici, le considera fondamentali per migliorare la qualità della vita dei pazienti (61%) e molti infermieri per il trattamento del dolore (48%). Tuttavia, solo poco più della metà dei medici ha attivato le cure palliative per le persone con demenza nell’ultimo anno. In un caso su quattro si rileva l’impossibilità di attivazione del servizio all’interno della regione/Asl. Per il 56% dei medici e il 68% degli infermieri, le cure palliative vanno avviate solo nelle fasi avanzate o terminali. Ma un medico su tre ritiene invece che l’attivazione debba avvenire fin dalla diagnosi. «Il personale medico è in generale consapevole dell’importanza delle cure palliative ma spesso ha difficoltà a valutare il momento migliore per attivarle, momento che ancora in troppi casi è identificato con le fasi terminali. Esiste un gap culturale che verrà pian piano colmato, non bisogna dimenticare che le scuole di specializzazione in cure palliative sono nate solamente tre anni fa» spiega Nicola Montano, ordinario di Medicina Interna presso il Dipartimento di Scienze Cliniche e di Comunità dell’Università degli studi di Milano, Ospedale Maggiore Policlinico di Milano.

La reticenza del medico (nonostante le richieste)

I caregiver chiedono, come emerge dalla survey, una miglior comunicazione con il medico, lamentando l’insoddisfazione per le informazioni ricevute sull’evolvere della malattia, il suo progredire finanche alle ultime fasi. L’indagine sul personale medico-infermieristico rileva che il 47% dichiara una carenza di informazioni su scopo e utilità delle CP in area demenza, il 24% trova difficile spiegarne l’utilità, il 21% pensa che ciò demoralizzerebbe il paziente e per un clinico su cinque parlare del decorso della malattia e del fine vita è difficile. «Nell’ostacolare la diffusione delle cure palliative in ambito di demenza, alla mancanza di consapevolezza e relativa scarsità di servizi, si associano le barriere culturali» commenta Chiara Ferrari, Direttrice delle indagini sociali politiche e di opinione in Ipsos. «Una certa reticenza dei medici nel parlare di certi argomenti, una resistenza a inserire nella narrazione anche il futuro del paziente, l’evoluzione della sua malattia e il fine vita proprio da parte di coloro i quali dovrebbero occuparsene per professione. Contemporaneamente, con i cambiamenti demografici e nella struttura famigliare, sempre più mononucleare, si vanno perdendo quei riti sociali di passaggio che rendevano la morte più visibile e meno spaventosa».

Nell’ostacolare la diffusione delle cure palliative in ambito di demenza, alla mancanza di consapevolezza, si aggiungono le barriere culturali e la reticenza dei medici

Chiara Ferrari

La morte, grande assente dalla formazione

Tanto che solo al 21% degli assistiti è stata proposta una Pianificazione condivisa delle cure (Pcc). Il dato evidenzia una mancanza di un dialogo strutturato e precoce. Uno strumento che, secondo la letteratura e anche l’80% dei caregiver intervistati, migliorerebbe l’assistenza e la qualità della vita delle persone con demenza. Di volontà anticipate formali e della nomina di un rappresentante dell’assistenza sanitaria si dovrebbe parlare prima che la compromissione cognitiva del paziente lo impedisca. Anche perché la demenza è una malattia per la quale non esistono trattamenti farmacologici e per la quale l’eccessiva medicalizzazione è un problema reale. «Non si parla di morte durante l’intero corso di laurea in medicina. Le scuole di specializzazione in cure palliative, dove questo tema è presente, sono nate solamente tre anni fa» ricorda Montano, che aggiunge. «La relazione non è considerata tempo di cura e quindi non lo è neppure dedicare del tempo a parlare con il paziente e il suo caregiver».  

Non si parla di morte durante l’intero corso di laurea in medicina. Il tempo dedicato alla relazione, poi, non è considerato tempo di cura

Nicola Montano

Già adesso la maggioranza delle famiglie a Milano sono composte da una sola persona. Il tema della presa in carico di questi pazienti diventa sempre più rilevante per via dei cambiamenti sociodemografici in atto da tempo. Lo spiega Elisabetta Donati, sociologa e responsabile scientifica, Fondazione Ravasi-Garzanti, tra le cui attività c’è il sostengo a persone fragili, con Alzheimer e alle persone e famiglie che se ne prendono cura. In particolare, «qui si gioca la partita del domicilio che, come emerge anche dall’indagine Ipsos, è non solo una necessità per mancanza di strutture e di alternative ma è anche un desiderio delle persone intervistate (il 72%), di rimanere a casa ma con l’auspicabile sostengo medico-sanitario». Che fare? «Interpellare il mondo domestico, non considerarlo separato dall’universo dei servizi. Agire sull’attuale frammentazione delle risposte. La maggior parte dei servizi è fornito da operatori privati sui quali la programmazione diventa quasi impossibile». Nell’esperienza quotidiana di Fondazione Ravasi, emerge che «oltre a dover affrontare una grande quantità di problemi di tipo pratico, sui caregiver pesa l’incertezza: «Non hanno il lusso di poter dire Non ho capito oppure Non so cosa fare, convivono con la fatica ma anche con la paura di sbagliare. Nessuno pensa mai che tra una visita specialistica e l’altra, magari programmata a distanza di mesi, in mezzo c’è la vita, la quotidianità, gli stati d’animo, i cambiamenti emotivi, gli ostacoli» fa osservare Donati. «Manca un accompagnamento».

Donne: la richiesta, mai esplicita, a sacrificarsi

Inoltre, dall’indagine emerge che solo un caregiver su due si sente sufficientemente preparato; il 75% denuncia un impatto negativo sulla conciliazione lavoro-famiglia, il 72% sulla propria socialità, il 68% sulla salute mentale. «La caregiver designata, senza testamenti o contratti scritti, è ancora sempre la donna, la figlia, la moglie, la madre, la nuora. Il peso maggiore è su di loro, loro le responsabilità, che però non sono mai esplicite. Questo è un grosso problema sociale e non dell’individuo» spiega Donati. «Sono donne adulte, che hanno dentro di loro il frutto maturo di tutta una stagione emancipativa del nostro paese, che è stato un investimento collettivo, e a cui ora viene chiesto di sacrificarsi, di compiere scelte drastiche o la cura o il lavoro o il benessere dell’altro o il mio».  

La stagione emancipativa del nostro paese è stata un investimento collettivo, ma ora alle donne viene chiesto di sacrificarsi o di compiere scelte drastiche «la cura o il lavoro» o «Il benessere dell’altro o il mio»

Elisabetta Donati

Quanto al problema delle competenze, emerso dall’indagine Ipsos, «non si nasce caregiver, ma le competenze che vengono acquisite e sono preziose per tutti i decisori di politiche sociali e la programmazione di servizi perché le caregiver strutturano delle strategie composite molto diversificate, dalle quali molto si può apprendere. Sono, inoltre, portatrici di una grande consapevolezza sul processo di cura e delle sue ultime fasi, che utilizzeranno quando toccherà a loro, una consapevolezza che dovrebbe essere molto più diffusa tra i cittadini».

Foto di Federazione Alzheimer Italia

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