Formazione

Dalla Tunisia con furore

Amin e Saber appartengono al movimento clandestino Al Nahdà. Arrivati in Italia dopo un viaggio avventuroso, rischiavano di essere rispediti indietro.Ma hanno incontrato le Acli di Palermo

di Giacomo Ratti

È il 12 luglio 1998: all?aeroporto ?Cartagine? di Tunisi i charter scaricano comitive di accaldati turisti europei, eccitati all?idea della vacanza, e magari anche un po? della finale dei mondiali Francia-Brasile che la sera si vedranno comodamente affondati nelle poltrone dei loro alberghi di Gerba, di Hammamet, di Tabarka. Voglia di Africa, voglia di esotismo, voglia di divertimento.
È il 12 luglio 1998: a Lampedusa sbarcano 146 tunisini assiderati, allo stremo dopo aver traversato su un?imbarcazione stipatissima il braccio di mare che divide l?isola più meridionale d?Italia dall?Africa. I mondiali per loro non sono più interessanti, da quando la loro nazionale è stata eliminata. Ma non è per questo che hanno tentato il ?viaggio della speranza? verso l?Italia. Voglia di Europa, voglia di libertà, voglia di un lavoro ben retribuito.
Ci sono anche Amin e Saber su quella barca intercettata da una motovedetta della Guardia costiera. Ci sono anche questi due giovani tunisini fra i disperati compatrioti (comprese alcune donne incinte) subito indirizzati verso il centro di prima accoglienza, combattuti fra la gioia del loro primo alloggio nella ?terra promessa? e la paura di essere rispediti a casa. Amin e Saber, laureati e di famiglia benestante, hanno più motivi degli altri di temerlo: sanno che il regime chiude un occhio con chi fugge per ragioni economiche, non perdona chi fugge per motivi politici. Soprattutto se appartiene al movimento Al Nahdà. Come minimo, li attenderebbe un?accusa di alto tradimento e l?ergastolo.

A testa in giù nell?acqua bollente
Saber e Amin (nomi fittizi – ndr) hanno già conosciuto galere come il famigerato ?9 Aprile? di Tunisi, dove sono stati tenuti in isolamento in due metri quadrati, per poi passare dopo 45 giorni a una cella di 50 metri quadri, accalcati con cento delinquenti comuni. Le loro storie sono vicende gemelle di dissidenti perseguitati, picchiati, torturati, incarcerati e infine liberati, ma tagliandoli via dalla vita civile, senza possibilità di lavorare. «Sono un tunisino che ama la sua terra, tanto bella e dalle gente ospitale quanto governata da un regime che disprezza i diritti umani», racconta Saber. «Abbiamo avuto solo due governi in 42 anni, da quando abbiamo cacciato via i francesi. E chi si è opposto al potere è stato arrestato, massacrato e torturato. Soprattutto se appartenente al mio movimento studentesco, Al Nahdà. Nel maggio ?91 il generale Ben Ali, andato al potere nel 1987 con un golpe, diede ordine di arrestarci tutti, accusandoci di essere integralisti. Sono fuggito, passavo la vita nascosto in case di amici. Mi hanno condannato a 15 anni per aver partecipato a manifestazioni non autorizzate e perché appartenevo a un partito illegale. Arrestavano e umiliavano mio padre, perché dicesse dove mi nascondevo. Alla fine, nel 1995, ho preferito costituirmi, non potevo lasciare che i miei soffrissero così. I poliziotti erano felici di vedermi: i loro occhi erano quelli di una bestia affamata davanti a una facile preda. Mi hanno appeso a testa in giù nell?acqua bollente, spegnevano le sigarette sul mio corpo, mi versavano acido sui genitali. Ancora oggi i miei arti risentono di quelle torture. Poi mi hanno fatto la grazia di ridurmi la condanna da 15 anno a uno: ma sono stati 12 mesi lunghi come 15 anni. Poi mi hanno liberato, sequestrandomi i documenti utili per trovare lavoro. Ero fuori, era come fossi dentro. La gente mi evitava, aveva paura. Ogni tanto mi tiravano giù dal letto e mi portavano in caserma: altri interrogatori, altre torture».
Anche Amin per 15 mesi è stato latitante, ricercato per gli stessi motivi di Saber. Solo che lui non si è costituito: «La polizia mi ha beccato in una biblioteca e già in macchina quattro poliziotti hanno preso a picchiarmi selvaggiamente. Poi, in caserma, mi hanno appeso come un tacchino a una trave e hanno cominciato a colpirmi con delle spranghe dappertutto. Volevano i nomi dei miei compagni, ma a questi carnefici non potevo consegnare ragazzi che, come me, avevano come unica colpa di credere nella libertà. Alla fine, dopo 20 giorni di torture, mi hanno condannato a otto mesi. E quando mi hanno liberato, due volte al giorno dovevo firmare in caserma il registro delle presenze. Era come essere agli arresti domiciliari, ero al limite del crollo. Per dieci volte mi sono preparato alla fuga, con Saber. Il 12 luglio ci sono riuscito. Una data che ricorderò sempre».
Una data che resterà impressa anche ai tifosi di Zidane e di Barthez, ma per una vittoria in un match di football. Per Saber e Amin, invece, l?arrivo in Italia rischiava di tramutarsi in una sconfitta. Non era facile convincere le autorità italiane che le carte erano in regola per chiedere asilo politico. A Milano viveva però un altro dissidente, Aziz, fuggito nel ?91. Rintracciato tramite amici tunisini, Aziz prende un aereo per Palermo dove qualcuno lo indirizza alle Acli. Il presidente, Angelo Capitummino, comprende al volo che si tratta di salvare due vite umane: sacrifica le ferie e si dedica anima e corpo alla causa dei due ragazzi tunisini.

In attesa dell?asilo politico
«Grazie alla richiesta di asilo politico presentata dal legale delle Acli», concludono Saber e Amin, «ci hanno separato dagli altri clandestini e ci hanno affidato alle Acli, in attesa che sia istruita la nostra pratica. Finalmente eravamo liberi. Dio misericordioso ha messo le Acli sulla nostra strada. E ora ci sentiamo a casa nostra. Ma non dimentichiamo la nostra vera patria. E a voi italiani chiediamo di fare altrettanto». Cala il sole su Palermo e la Sicilia. Adesso, nell?idillio di case bianche e azzurre di Sidi Bou Said, la ?Portofino tunisina?, i turisti si godono il tramonto sorseggiando il tè alla menta sulla terrazza del Café de la Paix, il caffè della pace cantato anche da Battiato. Ma non c?è pace vera per il popolo tunisino, né tramonto in vista per Ben Ali, il presidente ?amico dell?Europa?, l?uomo forte che proprio lì vicino si è costruita una enorme villa-bunker. Perché non si sa mai, potrebbe venire il giorno che il mite popolo tunisino non avrà più tanta paura…
(ha collaborato Valentina Ciprì)

Dini, quell?accordo non va
«Chiediamo al governo italiano, che ha rapporti economici importanti con la Tunisia, di non limitarsi all?aiuto economico, che il governo sfrutterà solo per rinforzare il suo stato di polizia e di cui il popolo tunisino non trarrà alcun beneficio. Chiediamo piuttosto di mettere alle strette il nostro governo imponendo il rispetto dei dirtti umani e la libertà. Solo così potrete arginare il fenomeno dell?immigrazione. Molti di noi fuggono non per trovare lavoro, ma alla ricerca di quella libertà che il nostro governo ci nega senza nessun diritto».
Così i tre giovani tunisini Aziz, Amin e Saber lanciano un appello a Roma per il loro Paese, la cui preoccupante situazione dei diritti umani è regolarmente denunciata da Amnesty International con lunghi rapporti che spiuegano con dettagli raccapriccianti come viene impiegata la tortura contro i dissidenti. L? appello è stato fatto proprio dalle coraggiose Acli di Palermo (tel. 091/331900 – 0330/844868) e dal loro presidente Angelo Capitummino, il quale si spinge anche oltre, denunciando il recente accordo stipulato tra Roma e Tunisi: «I miliardi di aiuti economici promessi dal nostro ministro degli esteri Dini al presidente tunisino Ben Ali sono una beffa, il frutto di un accordo siglato sulla pelle dei dissidenti. Così si risolverà forse il problema dei clandestini da rimpatriare, ma ciò non servirà certo a ripristinare la libertà e la difesa dei diritti civili in Tunisia».

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