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«Dall’Unesco solo parole. E per Palmira ormai è tardi»
Prima i razzi di Assad, poi i saccheggi del patrimonio storico, infine la conquista da parte dei jihadisti. Per il celebre sito archeologico si teme il peggio. «Ma la priorità è la crisi umanitaria». Parla l’archeologo Cheickhmous Ali
C’è un quadro del preraffaellita Herbert Schmalz che s’intitola L’ultimo sguardo della regina Zenobia su Palmira.
Ed è un po’ con quel sentimento di malinconica resa, impresso dall’artista negli occhi della ribelle orientale, che il mondo guarda oggi all’avanzata dell’Isis verso le rovine dell’antica città carovaniera, nota come la Sposa del deserto.
Solo qualche giorno fa, la notizia del respingimento dei jihadisti alle porte di Tadmor – nucleo moderno di Palmira – da parte delle truppe regolari di Bashar al-Assad aveva fatto tirare un sospiro di sollievo a quanti temevano il ripetersi delle distruzioni avvenute nei siti assiri di Nimrud e Hatra, in Iraq. Ma il 20 maggio i soldati del Califfo hanno riguadagnato terreno, arrivando a conquistare ieri il controllo totale della città.
Intanto – come ha confermato Maamoun Abdulkarim, direttore generale per le Antichità e i Musei siriani – centinaia di statue conservate al Museo di Palmira sono state trasferite da forze governative in un luogo sicuro. Restano in loco, e a rischio, oggetti di grandi dimensioni difficilmente trasportabili. In pericolo anche le vestigia – risalenti alla fase della dominazione romano-imperiale – che si stagliano con magnificenza fra sabbia e cielo.
«Le devastazioni a Palmira sono iniziate nel 2012 — ci racconta Cheikhmous Ali, ricercatore in Archeologia del Vicino Oriente all’Università di Strasburgo e presidente dell’Association pour la Protection de l’Archéologie Syrienne (Apsa) — quando l’esercito del regime ne fece una vera e propria base militare, saccheggiando il sito senza rispettare le Convenzioni dell’Aja e di Parigi sulla protezione del patrimonio culturale mondiale; all’epoca, una brigata di snipers si era installata sul tetto del museo e l’edificio fu centrato da una granata. I militari hanno anche aperto una strada tra le rovine con i bulldozer, scavato tunnel e dighe di terra. Tutte operazioni che, per lo sconvolgimento delle stratigrafie, pregiudicano future ricerche. Altre postazioni erano stati collocate, invece, nelle colline limitrofe, in prossimità del castello di Qala’at Ibn Maan e delle tombe-torri del I-II secolo, in modo da poter lanciare razzi verso la città moderna e la zona archeologica, dove infatti furono colpiti alcuni monumenti. A subire i danni più gravi è stato il celebre Tempio di Baal, innalzato nel 32 d.C., di cui possiamo vedere le brecce apertesi nei muri e sul porticato a causa dei bombardamenti.
Ma non è tutto! – continua Ali – il Campo di Diocleziano e le necropoli sono state oggetto di scavi clandestini, mentre reperti provienienti quasi certamente da Palmira sono stati confiscati da doganieri libanesi e italiani».
Ogni volta che la furia iconoclasta dell’Isis si abbatte su monumenti e statue, l’Occidente piange la perdita di capolavori incommensurabili. C’è chi critica la sovraesposizione dell’archeologia rispetto alle vittime del conflitto mentre Jonathan Jones scrive sul Guardian del 19 maggio che non c’è differenza tra salvare pietre o persone poiché, privi del passato, saremmo solo «animali senza memoria». Qual è il suo pensiero?
In questo momento Palmira è attanagliata da una crisi umanitaria. I pozzi d’acqua più vicini alla città sono a circa quindici chilometri e manca l’energia elettrica. La sola fonte di approvvigionamento di farina è Homs ma la strada è bloccata dai jihadisti. Gli aiuti vanno prioritariamente alla gente che soffre.
Lei è presidente di Apsa, un gruppo internazionale di volontari che ha l’obiettivo di monitorare la situazione del patrimonio archeologico nell’emergenza della guerra. Come?
Una ventina di membri dell’Apsa agisce sul territorio per controllare lo stato di conservazione dei siti. Quando non ci sono combattimenti, il nostro compito è quello di documentare e implementare una banca dati che faciliti, in seguito, le ricostruzioni. Ci impegniamo anche nella sensibilizzazione della popolazione locale, affinché contribuisca alla difesa del patrimonio e non si renda complice di depredazioni. Mancano però fondi e risorse per agire in modo più efficace.
La direttrice generale dell’Unesco lancia un nuovo appello per Palmira – dal 1980 nella lista del World Heritage – e si dice preoccupata per i combattimenti che «minacciano uno dei siti più significativi del Medio Oriente».
Quello di Irina Bukova è un sostegno solo a parole. In ogni caso, per Palmira, è troppo tardi. Ora che la città è caduta in mano all’Isis, dobbiamo prepararci al peggio anche per il sito archeologico. Abbiamo già perso Apamea e Dura Europos, dove le immagini satellitari evidenziano decine di migliaia di fosse scavate da tombaroli, che rendono ormai problematiche le indagini scientifiche. L’Unesco, però, è ancora in tempo per stringere accordi con la Direzione Generale per le Antichità in Siria e con le associazioni che lavorano sul campo. Serve un apporto logistico e finanziario. In alcune regioni è ancora possibile mettere in salvo le testimonianze del nostro passato plurimillenario per trasmetterle, nella loro integrità e bellezza, alle generazioni future.
da ilmanifesto.info di Valentina Porcheddu
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