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Sostenibilità sociale e ambientale

De Coop…rofundis/2

di Walter Ganapini

…SEGUE

Il caso emiliano. Per capire, dal mio punto di osservazione attuale, come dovrebbe delinearsi un programma di governo del cambiamento, intendo assumere il caso emiliano come esemplare e pieno di significati e di rappresentazioni della realtà nazionale del maggiore partito della sinistra e del maggiore sindacato operaio.

Base di partenza di questa ipotesi non è solo un atteggiamento sperimentale, che porta ad esprimersi solo su ciò che si é osservato direttamente; oltre a ciò, infatti, pesa il ricordo di come il considerare la realtà emiliana laboratorio di innovazione sociale e politico-culturale sia stata proposta di lavoro lanciata da Ingrao, concludendo un congresso all’Università di Bologna nei primi anni ’70. Tale proposta lasciò in molti, me compreso, segni profondi, poiché intuiva la grande ricchezza del tessuto sociale, economico e culturale costruito dal movimento operaio in decenni e ne proponeva l’assunzione come base di ulteriori sviluppi ed arricchimenti antagonistici rispetto alle tendenze del modello di sviluppo guidato dal grande capitale economico e finanziario.  Certo (e d’ora in poi considererò scontate, e quindi inutili, siffatte controdeduzioni ‘preventive’) non si voleva con ciò ipotizzare fughe dalla realtà politica ed economica data; era pur vero, però, che quel substrato di relazioni sociali e di strutture economiche, sviluppato o almeno favorito dalla azione di governo del movimento operaio, appariva di grande pregnanza per quanti intendessero immaginare e perseguire un progetto di trasformazione possibile nel contesto delle problematiche proprie di una società industriale avanzata quale l’italiana…..

Per ulteriormente suffragare il taglio di queste note su un possibile contributo specialistico alla elaborazione di un progetto di trasformazione, dovrò poi ricorrere ad un aforisma, dato che Julien Benda ha già scritto della attitudine dei chierici al tradimento e D’Alembert, nel suo incredibilmente attuale «Saggio sul rapporto tra intellettuali e potenti» ha esplicitato tempestivamente i codici e la complessa rete di relazioni che mettono in comunicazione le due categorie suddette. Pochi anni fa un amico statunitense di origine indiana, Vinod Shrivastava, alto funzionario della U.S. Agency for International Development con cui collaboravo a Kingston-Jamaica, mi spiegò il suo modo di porre il problema «motivazione/coinvolgimento» nei corsi di management.   ‘Commitment’ e ‘Involvement’: «II personale di imprese va motivato a perseguire con tenacia gli obiettivi proposti dalla direzione aziendale: deve cioè essere ‘committed’, non solo ‘involved’». E qual è, ci si potrebbe chiedere, la differenza di fondo tra ‘committment’ e ‘involvement’? La risposta é semplice: tutti conoscono il piatto forte dell’english break-fast, ‘bacon and eggs’. Bene, nella preparazione di tale piatto il maiale è ‘committed’, la gallina soltanto ‘involved’. Poiché negli anni tra il ’68 e l’ ‘80 mi é troppo spesso capitato di essere ‘committed’, incappando con ciò in esperienze politiche e culturali dagli esiti dolorosi, che hanno portato a cambiamenti anche drastici rispetto alle mie aspettative di vita, chiedo comprensione per il tono amaro e un po’ animoso di queste note, che resiste anche alla terza stesura, l’ultima.  Chi, avendole vissute direttamente in quegli anni, può dimenticare le elaborazioni e le esperienze in materia di rapporto tra lavoro e studio, l’enorme potenziale di trasformazione intrinseco alle azioni concretamente innovative in campo psichiatrico, psico-pedagogico, della medicina del lavoro, della igiene dell’ambiente?   E, ancora, come non ricordare l’entusiasmo diffuso che permeava le realtà del decentramento e della partecipazione dei primi anni ’70, la carica innescata dal dibattito sul ‘Progetto a medio termine’, così malamente e svogliatamente gestito, la tensione verso una forte caratterizzazione ideale delle prime esperienze di ricerca e di lavoro per chi si immetteva sul mercato nella seconda metà di quel decennio?   Io non dimentico, per cui parlerò qui solo di ciò che mi ha visto partecipe, e per di più partecipe ‘fully committed’ e perciò né distaccato né allora fruitore delle molteplici e gradevoli valvole di regolazione offerte per il tempo libero dal vivere in una realtà di nazione industriale avanzata .

Al fine di rifuggire da rischi di astrazione eccessiva e di possibile nebulosità dell’universo ‘realtà emiliana’ scelgo per l’analisi che segue il campione ‘pianificazione eco-energeticamente coerente dell’uso e del governo delle risorse’, campo tematico a me il più familiare. Il livello del dibattito internazionale in tale ambito era ben presente, nel contesto temporale indicato all’inizio, a molti dei ‘committed’ e a non pochi ‘involved’ : si sapeva dell’approssimarsi di una fase di transizione epocale da modelli dissipativi a modelli conservativi di risorse,visto che  qualche rapporto del Club di Roma circolava nel nostro ambiente, pur viziato di prevenzioni ideologiche . Ancora, si sentiva parlare della messa in discussione delle stesse prospettive reali di sopravvivenza della nozione di crescita economica (Daly ‘L’economia dello stato stazionario’,Il Saggiatore).

Il dibattito sulle grandi questioni ambientali e sulla crisi energetica, supportato dalla esperienza quotidiana di critica militante (‘committed’) all’organizzazione del lavoro, di diffusione delle lotte per la difesa della salute in fabbrica e sul territorio, aveva raggiunto in quegli anni, grazie al ‘Sapere’ di Maccacaro, migliaia di operatori tecnico-scientifici e di quadri politici e sindacali. Per dirla in estrema sintesi, non era patrimonio di pochi l’acquisizione secondo cui l’attuale modello di sviluppo veniva sempre più caratterizzandosi come generatore, ad un tempo, di fenomeni di sovrautilizzazione (concentrazione in aree limitate, in quanto le più favorite, di insediamenti abitativi, industriali, agricolo-zootecnici intensivi e delle grandi infrastrutture ad essi asservite) e sottoutilizzazione (marginalizzazione di aree montane,collinari e meridionali) di risorse ambientali . A tutti, inoltre, apparivano ben chiari i costi di tale modello .

Altrettanto diffusa risultava la basilare constatazione di come la logica prevalente dello sviluppo non avesse mai preventivamente assunto come vincolo o come variabile la nozione di esauribilità, prima qualitativa che quantitativa , delle risorse ambientali ed energetiche non rinnovabili .  Proprio per questa consapevolezza, la parola d’ordine dell’austerità,per quanto controversa sul piano dell’impatto psicologico, parve a molti essenziale, per la sua capacità di porre in rilievo strategico la criticità degli effetti del modello dominante, individuando i riferimenti internazionali (rapporto tra Nord e Sud del mondo, pace e guerra) e proponendo l’uso razionale e parsimonioso delle risorse (quella che Amory B. Lovins ha sempre definito la ‘elegant frugality’) come parametro centrale dei nuovi, ‘necessitati’, modi di vivere e produrre….. Riemergendo dall’incubo ‘ferroviario’, torna conto rammentare come venisse evolvendo una embrionale ‘cultura dello sviluppo’ a seguito di riflessioni, letture ed esperienze prima elencate.

La necessità profonda di un pensare e di un agire ‘altro’, antagonistico rispetto ai prevalenti, portava a concepire la realtà emiliana come sede di sperimentazioni che, sulla base di ben collaudate referenze internazionali, mirassero a ribaltare la logica ‘concentrazione/ marginalizzazione’, attraverso interventi di vero riequilibrio territoriale che trasferissero risorse verso l’Appennino e le aree più depresse, attivando le necessarie imprese strutturali/ infrastrutturali.

Non si dimentichi come, in quegli anni, tutto un filone di pensiero, che vedeva in G.B. Zorzoli uno dei principali riferimenti, si esercitasse concretamente alla messa a punto di metodologie analitiche e di procedure di pianificazione al servizio di politiche appropriate di recupero produttivo, eco-energeticamente compatibile e coerente, delle aree marginali del nostro paese…..

Fu in quegli anni che, nell’ambito del Progetto Finalizzato Energetica 1 del CNR, un gruppo di ricerca diretto dallo scrivente avviò un lavoro sulle vallate appenniniche emiliane che portò a conclusioni il cui potenziale di innovazione metodologico-progettuale risulta ancor oggi tale da attrarre l’attenzione non solo di ricercatori italiani e stranieri, ma anche di strutture impegnate nella costituzione di quelle che la Cee definisce agenzie per lo sviluppo in aree a risorse limitate.

Non mancavano,quindi,proposte:volontà politica e cultura di governo, quelle si, mancavano.    A riprova di ciò, non è fuori luogo ricordare le numerose e qualificate competenze che, a far data dal 1970, affluirono presso gli uffici regionali dell’Emilia Romagna attratte dalla sfida per lo sviluppo ripetutamente sin qui evocata e spesso sinceramente disponibili a mettersi in gioco sul terreno della trasformazione:quante di quelle competenze sono rimaste, ad oggi, in Emilia?

Allo stato attuale delle cose, purtroppo, i veri interventi in Emilia si orientano verso le aree forti, mentre alle deboli vanno le briciole; in sintonia con la tendenza internazionale.  Qualcuno potrebbe cercare di obiettare, esibendo elenchi di leggi ed azioni finalizzate, per fare un esempio, alle aree appenniniche, oppure richiamando tutti i vincoli esterni che hanno contrastato ed ancora ostacolano politiche di riequilibrio.  Queste obiezioni (sempre che non ci si rifaccia ad esempi quali la realizzazione dell’invaso di Ridracoli) saranno le ben accette, ma l’assenza dei conflitti che una vera scelta di riequilibrio avrebbe generati funge da indicatore dell’assenza/latitanza della scelta medesima.   Simili considerazioni si possono sviluppare a proposito delle recenti politiche regionali in materia agricola, ambientale, delle infrastrutture, dei servizi per l’innovazione……CONTINUA


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