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Ecco cosa ci insegna la Svizzera

La prossima settimana in Svizzera si terrà un referendum teso a limitare il divario tra lo stipendio più alto e quello più basso in una stessa azienda. Il referendum vorrebbe introdurre delle modifiche nella Costituzione basate sul principio dell’1:12. In Italia siamo all'1:50

di Gianfranco Marocchi

La prossima settimana in Svizzera si terrà un referendum teso a limitare il divario tra lo stipendio più alto e quello più basso in una stessa azienda. Il referendum vorrebbe introdurre delle modifiche nella Costituzione basate sul principio dell’1:12: e cioè che nessuno possa guadagnare in un mese più di quanto in un anno guadagnano i dipendenti meno pagati nello stesso ente o stessa azienda, sia pubblica che privata.

Contemporaneamente l'Italia risulta, sulla base del rapporto OCSE, Government ad Glance, tra i Paesi in cui è più alto il differenziale tra stipendi dei dirigenti pubblici e dei loro dipendenti (pur, come ricorda il Ministro D'Alia, essendo dati precedenti alle ultime modifiche normative in senso restrittivo), nonché una Paese dove i 100 top manager guadagnano nel 2012 oltre 400 milioni di euro (50 in più del 2012).

Sono passati una decina d'anni da quando Carlo Borzaga e Sara Depedri scrivevano circa la rilevanza della "equità percepita" nel clima organizzativo e, di conseguenza, nelle performance, delle cooperative sociali; in sostanza veniva documentato come, se i lavoratori percepiscono equità nella distribuzione delle risorse disponibili, si coinvolgono maggiormente, lavorano meglio, stanno meglio e l'impresa va meglio.

Come è possibile chiedere impegno, talvolta sacrificio, coinvolgimento, se qualcuno nell'impresa fa la fame e altri hanno stipendi oltre ogni ragionevolezza?

Sono prevalsi in questi anni anni approcci culturali diversi, tesi invece all'esaltazione del top manager e al tentativo di convincere che grazie a tali menti eccellenti – e dunque da accaparrarsi a qualsiasi costo – l'azienda avrebbe raggiunto l'eccellenza a vantaggio di tutti.

La realtà si è spesso dimostrata diversa.

Un'elite rapace e opportunista, che vive su trame di rapporti inconfessabili con la politica e conflitti di interessi e, d'altra parte, lavoratori sottopagati o lasciati a casa.

Questa impresa paga però la crisi, cui resistono meglio – pur non immuni – le cooperative che sacrificano la redditività al mantenimento dei posti di lavoro e che hanno indubbiamente differenziali retributivi risibili rispetto a quelli della generalità delle imprese for profit.

Si possono avere opinioni diverse sul referendum svizzero, ma i temi che pone non possono essere ignorati.

Non si tratta di moralismo, pauperismo o populismo.

Si tratta di avere la consapevolezza che nella revisione dei principi su cui sono fondati la nostra economia e la nostra società, vi è anche la necessità di un nuovo patto tra lavoratori e imprese, fondato su basi molto diverse da quelle che – come avvenuto in precedenti governi – chiamano alla condivisione ed alla corresponsabilità quando vi sono da fare fatiche e rinunce e dimenticano fin troppo platealmente ogni comunanza di destini quando vi è da condividere la ricchezza.

Intendiamoci: la condivisione, pur enfatizzata dalla cooperazione sociale, è sicuramente propria di una parte consistente della piccola e media impresa italiana e trova nel nostro Paese – è d'obbligo ricordarlo in questo periodo di riscoperta del pensiero e dell'azione di Adriano Olivetti – precedenti illustri. Ma oggi la cooperazione ha, più di altri soggetti, le carte in regola e la credibilità per avviare un dibattito su questi temi. E l'Italia ne avrebbe bisogno.

di Giancarlo Marocchi, blogger di Vita con il suo Schiene Dritte


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