Famiglia

Enrico e Samuele: l’affido è anche per noi

Stanno insieme da 19 anni e l'utero in affitto non fa per loro. Non immaginavano che anche una coppia dello stesso sesso potesse dare disponibilità all'affido e anche al termine del percorso formativo sotto sotto pensavano che i servizi avrebbero sempre preferito una coppia eterosessuale. Invece da quattro anni Enrico e Samuele hanno in affido due fratelli, che oggi hanno 9 e 14 anni. «Non è facile, ma le loro risate ci ripagano di tutto. Il cuore ti batte in modo diverso»

di Sara De Carli

Quel giorno di autunno, quando suonò il cellulare, Enrico e Samuele non credevano che stesse succedendo davvero. Avevano fatto tutto il percorso formativo con il Centro affidi di Pistoia, ma quei mesi di attesa li stavano vivendo con i piedi di piombo, senza permettere che i sogni si prendessero troppo spazio. «Il nostro mood era quello di restare con i piedi per terra. “Ok abbimo fatto il percorso ma forse ci hanno detto che andavamo bene come coppia affidataria solo per essere politically correct”: ci dicevamo questo l’uno l’altro. Sotto sotto pensavamo che quando gli operatori avrebbero dovuto scegliere davvero tra noi e una coppia eterosessuale, avrebbero comunque scelto gli altri. Invece non è andata così», racconta Samuele.

Enrico ha 46 anni, Samuele 38. Vivono in provincia di Pistoia e stanno insieme da diciannove anni: «Mai subito un attacco o una discriminazione per la nostra omosessualità o per la nostra relazione», dicono. Si sono sposati nel giugno 2018 e dall’autunno successivo hanno in affido due fratelli, un maschio e una femmina, che oggi hanno 9 e 14 anni. Prima di essere affidati a loro, i due bambini stavano insieme alla mamma in una casa-famiglia.

«La prima volta che la parola “affido” è entrata nella nostra coppia è stato durante una chiacchierata con un’amica, che ha detto: “ma perché non prendete un bimbo in affido?”. Noi non sapevamo nemmeno che una coppia dello stesso sesso potesse dare disponibilità all’affidamento familiare», dice Enrico. «Ci si era interrogati sulla paternità e sull’ipotesi dell’utero in affitto, ma non rientra nel nostro modo di vedere le cose e la vita, nei nostri valori. L’affido invece… ci ha subito intrigati. Ne abbiamo iniziato a parlare tanto fra noi, ci siamo informati, abbiamo contattato il Centro affidi della nostra provincia e abbiamo fatto un anno e mezzo di formazione e di colloqui. Alla fine quello che ti si scolpisce in testa è che lo scopo dell’affido è il rientro dei bimbi nella loro famiglia di origine. Se invece guardi all’affido come “ultima spiaggia” per avere un figlio… sei fuori strada».

Qui entra in gioco un altro elemento casuale, «che poi forse tanto casuale non è», sottolinea Samuele. «Amici e parenti ci dicevano “ma poi, quando arriverà il giorno in cui ve li toglieranno perché i bambini torneranno dai loro genitori, che succede?”. È una domanda che ci facevamo anche noi: è una prospettiva che un po’ spaventa. Però io avevo conosciuto da vicino una storia di affido: l’ex fidanzata di mio fratello da piccola era stata in affido. Ho “toccato” il legame che lei, anche da grande, aveva con la famiglia affidataria, il bene che quella famiglia le ha fatto, la relazione che hanno mantenuto e questo mi ha fatto dire “sì”, mi ha convinto. Alla fine non ci ha mosso tanto il desiderio di avere un figlio nostro ma il desiderio di aiutare un bambino», racconta Samuele.

Torniamo quindi alla telefonata del Centro affidi. È l’autunno 2018, Enrico e Samuele sono insieme in auto quando squilla il cellulare. La proposta del Centro affidi riguarda un bambino di 5 anni. Samuele ed Enrico incontrano gli operetori del Centro affidi e accolgono l'abbinamento. Per la sorella del piccolo i servizi avevano individuato un’altra famiglia. «Poi un giorno ci richiamano e ci dicono che se noi eravamo d’accordo, i bambini possono stare insieme. Noi abbiamo entrambi fratelli, sappiamo cosa significa questo legame… abbiamo dato immediatamente disponibilità per entrambi, non potevamo certo essere noi a separarli». A questo punto Samuele ed Enrico iniziano il percorso di avvicinamento ai due bambini, in casa famiglia: per due mesi vanno in comunità due volte a settimana, presentandosi come “amici”. Stanno con tutti i bambini, giocano, li mettono a letto. I servizi e gli educatori della casa famiglia intanto fanno un lavoro enorme con le fiabe per far comprendere ai bambini cosa significhi amare un altro uomo. Si parla con i bambini, si scoprono le carte del progetto di affido. Qualche uscita, qualche serata, poi qualche weekend. A inizio gennaio 2019 i due fratelli entrano stabilmente in casa di Enrico e Samuele. «Né i bambini nè i loro genitori hanno mai mosso un’obiezione al fatto che l’affido fosse ad una coppia dello stesso sesso. Temevamo che i due papà avrebbero potuto magari avere dei dubbi, invece no. I ragazzi non sono mai tornati a casa raccontandoci episodi negativi in questo senso: anche a scuola gli insegnanti sono stati molto bravi, sia alle elementari che in prima media siamo andati a aprare in classe delle famiglie come la nostra», racconta Enrico.

«Ancora oggi a volte noi pensiamo di non essere in grado. L’affido è proprio un’esperienza in cui le persone che accogli ti insegnano tantissimo. I ragazzi ma anche i loro genitori. Con la mamma dei bambini abbiamo un buon rapporto, la prima volta che l’abbiamo incontrata le abbiamo proprio detto “noi non siamo qui per portarti via i bambini, ma per darti un supporto con loro», afferma Samuele. I primi tempi non sono stati facilissimi, «anzi direi che è stato un trauma sia per noi che per loro, non è tutto rose e fiori, è come se avessimo partorito due figli già grandi», dice Enrico. «Eravamo abituati ai nostri spazi e ritmi e ci siamo trovati a dormire in quattro in un lettone, a fare cose che non eravamo preparati a fare o che non sapevamo come fare. Da un giorno all’altro ti cambia il modo di pensare, di cucinare, di dormire. Io ero uno che se mi spostavi in giardino mentre dormivo, non me ne rendevo conto: adesso mi sveglio appena i ragazzi respirano in modo diverso», aggiunge Samuele. «Sorridevamo quando ci dicevano che quello di genitori è il mestiere più difficile del mondo, ora invece capiamo. La sera quando i ragazzi dormono tantissime volte ci chiediamo se abbiamo fatto bene o male a dire o a fare quella determinata cosa… Facile non è, ma ci mettiamo tutto l’amore possibile. Si sbaglia e ci si arrabbia, siamo abbastanza rigidi, ma quando i ragazzi ridono ci ripagano di tutto».

I due ragazzini, oggi, chiamano “babbo” Enrico e Samuele. «La prima volta, non sai quando abbiamo pianto», confidano. Perché farlo? Enrico non ha dubbi: «Perché il cuore ti batte in maniera diversa».

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.